Il mito di Circe ha una storia lunghissima: dopo la fine del mondo antico è uno di quelli che più si sono prestati a essere riletti, reinterpretati ed investiti di nuovi significati. Non più dea, né maga, né femme fatale, Circe diventa una donna autonoma, capace di scelte coraggiose e contro corrente.
Circe: dea, maga e femme fatale
All’interno della rassegna di letture in compagnia del Tirreno, degli itinerari nell’agro pontino e di quello sul promontorio, una pagina dedicata al mito di Circe.
Testo originale
Testo estratto da “Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale”, Irene Berti
Il mito nell’antichità
Il mito di Circe ha una storia lunghissima: dopo la fine del mondo antico è uno di quelli che più si sono prestati a essere riletti, reinterpretati ed investiti di nuovi significati. Il fascino di questa figura femminile “creata” da Omero ha attratto, nel corso dei secoli, poeti, pittori, romanzieri, registi, filosofi e moralisti.
Circe nell’Odissea è una figura molto complessa, e forse per questo particolarmente affascinante. Esperta in pozioni magiche ed in astuzie malvagie, come ogni divinità arcaica, Circe ha una faccia positiva ed una negativa.
E’ terribile e benigna, è una signora degli animali, una divinità liminale. Sa come parlare coi morti, può apparire e sparire ed agire senza essere vista.
La critica si è molto soffermata, senza tuttavia saper rispondere, sul perché Circe trasforma i compagni di Odisseo in porci, facendo dipendere da questo episodio l’intera interpretazione della personalità della dea (giudicata dunque capricciosa, ingiusta e crudele).
(Circe, lekythos del Pittore di Atene, V sec a.c.)
Ma Circe, essendo una dea arcaica, non ha bisogno di un motivo per trasformare gli esseri umani in bestie: lo fa e basta. Le ragioni dell’agire degli dei sono del resto spesso oscure.
La Circe arcaica, anche se pericolosa, era tuttavia concepita come una creatura fondamentalmente benigna. E’ lei stessa ad applicare la cera alle orecchie di Odisseo e dei suoi compagni per proteggerli dal canto delle Sirene, come racconta il poeta Alcmane.
Omero la descrive come una divinità che dona la conoscenza: d’ora in poi Odisseo continuerà ad errare e a dover superare prove terribili, ma saprà di che si tratta.
Ingegnoso Odisseo,
mancanza di guida per la tua nave non ti preoccupi,
ma alzato l’albero, spiegate le vele bianche,
siedi; la nave porterà il soffio di Borea.(Odissea, libroX)
Dopo Omero incontriamo Circe molte altre volte nella letteratura antica, ma con una caratterizzazione ben diversa. In Virgilio è una figura sinistra, una pericolosa forza della natura. Vengono ripresi molti dei dettagli omerici: il canto di Circe, il telaio a cui la dea siede tessendo, il fuoco di legno di cedro. Ma i gemiti terribili delle belve e l’atmosfera inquietante sono un’invenzione virgiliana. Non vi è alcun segno di civilizzazione qui. Non ci sono le belle pietre levigate o le coppe d’oro descritte da Omero. Non c’è alcun indizio del fatto che Enea, come Odisseo, potrebbe apprendere cose importanti da lei.
La Circe virgiliana non è ambigua, è solo malvagia e va evitata: ci pensa infatti Nettuno, che manda una tempesta e impedisce ai Troiani di approdare. Virgilio inverte la funzione del personaggio: mentre in Omero è una dea che alla fine favorisce il viaggio ed il ritorno di Odisseo, in Virgilio è un pericoloso ostacolo di origine soprannaturale.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, Circe personifica una passione così estrema che distrugge chiunque impedisca la sua soddisfazione. L’episodio di Odisseo segue molto da vicino quello omerico, ma l’atmosfera è molto più cupa. Odisseo qui arriva esplicitamente come vendicatore, Circe è chiaramente terrorizzata da lui e l’atto d’amore che sussegue non è un invito, ma il risultato della sua sottomissione. Le tre favole di Ovidio condividono lo stesso soggetto: Circe è innamorata di qualcuno che non ricambia i suoi sentimenti, per questo si vendica in maniera violenta e crudele.
La dea la contamina inquinandola con veleni pestiferi:
vi sparge liquidi spremuti da radici malefiche,
mormorando, nove volte per tre, una cantilena incantata,
groviglio oscuro di misteriose parole.(Ovidio, Metamorfosi)
Ai Greci ed ai Romani dell’epoca di Ovidio, Circe doveva apparire certamente più come una strega che non come una dea, nonostante la presenza di un culto, al Circeo, probabilmente precedente alla tradizione virgiliana e da esso indipendente.
Il suo essere una “straniera”, la sua liminalità, il suo isolamento, bastavano a renderla diversa dalle divinità olimpiche e a fare di lei, col tempo, una maga operante ai limiti, se non del tutto al di fuori, della religiosità tradizionale, emblema di un sapere pericoloso ed ambiguo.
(Via del Sole sul Circeo, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
Privata di ogni qualità positiva, Circe si adattava bene alle teorie cristiane sulla natura demoniaca della donna (e della sessualità femminile) promulgate dal Medioevo. Il ritratto ovidiano, in particolare, la presenta come un’incantatrice crudele e senza scrupoli, attirando l’attenzione degli allegoristi cristiani, che l’hanno interpretata come la personificazione del legame con l’irrazionale, la morte, la seduzione e le forze oscure ed istintive della natura.
L’iconografia antica ha ben rappresentato il processo di “umanizzazione” di Circe e la sua trasformazione da dea in maga. Nelle rappresentazioni arcaiche non è presentata come si raffigurerebbe normalmente una donna.
(Circe e Ulisse, V sec. a.c.)
Conducendo una vita di cui è la sola responsabile, Circe non si accorda infatti con la norma del comportamento femminile. Piuttosto inclina verso il maschile
Nel tempo Circe perde la centralità originaria, assumendo il ruolo della sconfitta. Dalle rappresentazioni più antiche, in cui Circe era una figura centrale, le immagini classiche del V sec a.C. insistono sul momento in cui Odisseo la sconfigge, sfoderando la spada, aggressivo e minaccioso. Circe è sorpresa, spaventata ed umiliata, fugge gettando a terra la bacchetta e la coppa. Questa nuova iconografia, attestata già intorno al 460, ha immediatamente gran successo.
(Ulisse insegue Circe, IV sec. a.c.)
Circe, diventata umana, deve prendere una posizione subordinata all’uomo, come si conviene ad una donna attica del V sec. Se non lo fa, è perché è un’etera o una prostituta.
Con la vittoria di Odisseo e la sottomissione della maga, l’ordine viene ristabilito nella casa senza uomini di Circe. Questa nuova enfasi pone la scena in un contesto di restaurazione dell’ordine sociale corretto, con l’uomo che comanda sulla donna.
L’accentuazione dell’aspetto esotico della dea, che spesso indossa abiti di foggia orientale, accentua lo straniamento di Circe, rappresentata ormai non solo come donna/etera, ma anche come la straniera per eccellenza, una barbara dagli scomposti costumi sessuali.
L’iconografia romana del mito è piuttosto stereotipata, il tema dominante è quello della “sottomissione” di Circe. In particolare negli affreschi, di cui conosciamo alcuni esempi da Pompei e dall’Esquilino, la dea risulta prostrata e supplicante ai piedi di un minaccioso Ulisse. La magia gioca un ruolo assolutamente secondario, accennata solo dalla fugace presenza degli animali in secondo piano, spesso nascosti dietro una finestra.
Medioevo e Rinascimento
L’unica Circe nota fino alla fine del XV secolo è molto influenzata dalle Metamorfosi ovidiane. Durante il Medioevo, infatti, Omero non era stato accessibile agli intellettuali dell’Europa occidentale, Ovidio invece continuava ad essere letto, e così anche Virgilio.
Circe e Calipso sono due dame bellissime senza marito che vivono sole sulle isole Eolie e insidiano tutti coloro che capitano loro a tiro. Circe è dunque scivolata lentamente sulla figura di Calipso, così consegnando alla letteratura futura due modelli perfetti per le varie maghe rinascimentali buone o cattive, come Alcina, Armida, Morgana ed Acrasia.
Nel Rinascimento, Circe è una maga o una seduttrice, che usa le arti magiche fondamentalmente per sedurre. Dopo la riscoperta di Omero, i cicli iconografici con gli episodi di Ulisse divennero molto famosi nelle corti rinascimentali italiane. Ulisse, come Ercole, ben rappresentava infatti lo spirito rinascimentale, con la sua sete di conoscenze, la sua fiducia nell’uomo, le aspirazioni ideali e morali. Emblema della perseveranza, della saggezza e dell’eloquenza, Ulisse era stato protagonista anche in Dante, che esaltando il suo spirito di conoscenza ne aveva fatto una figura protoumanistica molto amata nel Cinquecento. I dipinti di Pellegrino Tibaldi con gli episodi delle avventure di Ulisse sono tra le prime testimonianze. L’intero ciclo di affreschi è un omaggio alla mascolinità.
(Circe e Ulisse, P.Tibaldi, 1550)
Si affiancano però altre immagini accanto a quella stereotipata della Circe maga malevola e sensuale. Nel Cantus di Giordano Bruno, che è una satira dei costumi del tempo, Circe spiega alla sua ancella che troppi uomini nascono con animi ferini dentro, e dunque meritano di essere trasformati nei corrispettivi animali, dal momento che, una volta trasformati, non differiranno molto da prima, se non nel fatto che mostreranno apertamente zanne, unghie, denti, aculei e corna.
Ultimi secoli
Alla fine del XIX secolo Circe diventa una femme fatale, in un clima spirituale di grandi cambiamenti sociali e culturali. Vedono gli inizi l’emancipazione femminile, la nascita della psicoanalisi, l’affermazione dei primi movimenti omosessuali, la stretta repressiva della morale tradizionale.
Non più dea, non più nemmeno maga, Circe è soprattutto una seduttrice. Rappresenta un modello di femminilità “disturbante”, molto diffuso (o che si credeva molto diffuso) e sicuramente molto temuto dalla cultura profondamente misogina dell’epoca. Adesso il tema della seduzione è in primo piano assoluto, la magia è in genere solo uno degli strumenti di questa seduzione, espressione di un’analogia simbolica per cui il “fascino” – malvagio – che lei esercita sugli uomini è magia.
Una volta perduta la sua complessità la figura di Circe appare dunque scissa nelle sue componenti basilari: Circe diventerà nella letteratura e nell’arte decadentista di fin de siècle di volta in volta una maga malvagia, un demone, o un vampiro. L’amante gelosa raccontata da Ovidio diventerà una seduttrice o una prostituta. Gli aspetti liminali della sua personalità porteranno alla creazione di inquietanti figure verginali, quasi delle madonne.
La femme fatale è una belva dall’aspetto angelico, bellissima, conturbante, torbida, una vera mangiatrice di uomini. Nel pensiero superomista, la femme fatale diventa non di rado una specie di vampira, che succhia il sangue (o lo sperma) per distruggere l’uomo e lasciarlo senza forze, come la Circe delle allegorie medioevali. Un attentato al mito del vero maschio, incarnando così il polo negativo della dicotomia angelo del focolare–demone, in cui la cultura profondamente maschilista della seconda metà dell’Ottocento aveva forzato l’identità femminile.
Con la sua capacità di trasformare gli uomini in bestie, Circe incarna perfettamente i pericoli della seduzione e soprattutto le funeste conseguenze dell’attrazione per una femme fatale sugli uomini: in un dipinto del 1893 Hacker rappresentava significativamente Circe come una giovane donna nuda verso cui si avvicinano, strisciando sul ventre, uomini già parzialmente trasformati in porci. Come la femme fatale, Circe rappresenta l’immaginario temuto e segretamente desiderato di un’inversione dei ruoli, in cui la donna domina sul maschio.
Un’immagine popolare tra fine Ottocento e inizio Novecento era quella di una Circe più o meno esplicitamente pornografica. Il maiale, in queste riduzioni di Circe a cortigiana/prostituta diventa allora un simbolo della sua lussuria e dell’abbrutimento conseguente alla schiavitù dei sensi, assumendo dunque una connotazione simbolica completamente diversa da quella originale. Diversamente dalla tradizione biblica, il maiale nel mondo omerico non è infatti né un animale impuro, né un animale vorace, né tantomeno è legato alla sfera di Afrodite. L’immagine della Pornokrates di Félicien Rops (1878), in cui una Circe nuda e bendata si lascia guidare dal maiale che tiene al guinzaglio, ben sintetizza l’avvenuta fusione tra il desiderio sessuale e l’abbrutimento animale.
(Pornokrates, Félicien Rops, 1878)
La magia scompare completamente in questa versione del mito: la Pornocrate, nei panni di Circe, è la personificazione della prostituzione. L’iconografia proposta da Rops ebbe molto successo, come dimostra la presenza di figure femminili più o meno discinte, più o meno abbigliate all’antica, con maiali al guinzaglio, sulle copertine dei giornali in voga o sulle cartoline postali dell’epoca.
Molte sono le Circi “belve” nella letteratura di fine secolo. La Circe moderna di Rollinat ha occhi “cavi e funebri” ed il suo amante finisce per morire «empoisonné par ta caresse». Una Circe affascinante e ferina è anche quella descritta da D’Annunzio, che nel lungo poema Maia esprime il doppio punto di vista dell’uomo stremato «dalla fattura di Circe omicida […] che inganna con voce soave» e quello di Ulisse «sano alla lotta», vero soldato e vero maschio, destinato a smascherare e sconfiggere le insidie della seduttrice. Anche in Alcyone D’Annunzio torna sul tema di Circe, «Iddia callida», descritta come signora degli animali che tiene prigionieri «i suoi drudi, bestiame del suo piacere».
Non di rado Circe è raffigurata come una donna bellissima, giovane, sensuale ed apparentemente – ma solo apparentemente – innocua. Pericolosissima è la Circe di Waterhouse (1891), col suo aspetto giovanile e fresco e il gesto imperioso, che attira Ulisse pronta a servirgli la coppa avvelenata e a trasformarlo. Sullo sfondo, riflesso nello specchio, si vede Ulisse, che esita, spaventato. La superiorità di Circe rispetto al seminascosto eroe è evidente, il trono decorato con leoni e lo specchio circolare dietro di lei accentuano l’impressione della sua invincibilità.
Frutto dell’immaginario decadentista, amata dai simbolisti, ma anche emblema di una femminilità di rottura, la femme fatale non è dunque una figura univoca, e sarebbe sbagliato interpretarla solo in termini di femminilità repressa, o come il frutto della fantasia perversa scaturita dalla virilità minacciata di fin de siècle.
Rispetto agli altri archetipi antichi della femme fatale (Lamia, Salome, Medea, le Sirene), troppo negativamente connotati, Circe è forse quello che meglio ne esprime il carattere ambiguo. Mentre infatti era difficile presentare un’immagine positiva di Lamia o di Salome (altre celeberrime “madri spirituali” della femme fatale di fine Ottocento), Circe si è sempre prestata ad incarnare l’ambiguità. Sebbene infatti gli aspetti più mostruosi e vampireschi dell’immaginario collettivo sulla femme fatale siano frutto della crisi della mascolinità tradizionale e siano da ricondurre, come giustamente osservato da molta parte della critica, all’insana cultura sessuale di fin de siècle (a sua volta risultato di profondi cambiamenti sociali), la femme fatale è una figura polisemica, che si presta ad essere investita anche di altri significati.
Soprattutto nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento non mancavano donne reali, intelligenti e spregiudicate, che incarnavano l’ideale (o il contro-ideale se si preferisce) della femme fatale. Queste donne godevano di dubbia fama ma di indiscusso fascino e utilizzavano consapevolmente il modello della femme fatale per rompere le costrizioni sociali ed uscire dalla subalternità a cui erano altrimenti destinate: frequentavano salotti e finanziavano artisti, spesso avevano loro stesse velleità artistiche o letterarie e si servivano coscientemente (e talora senza scrupoli) del loro fascino.
Non a caso il fenomeno era soprattutto diffuso tra attrici, ballerine ed artiste: tra la languida e subalterna femme fragile e la mostruosa ma indipendente femme fatale, quest’ultimo modello doveva certamente apparire preferibile a chiunque aspirasse alla libertà personale e professionale.
Un intero secolo del resto non aveva fatto altro che classificare, aiutato anche dalla scienza medica e dalla fisiognomica, le donne in categorie ben definite, che non lasciavano spazio tra una norma rigidissima e repressiva e la trasgressione immediatamente catalogata come deviazione, malattia o nevrosi.
Femme fatale o maga? L’identificazione di Circe come prototipo di femme fatale non è l’unico motivo del suo successo in quest’epoca. Il fatto che il mito di Circe avesse goduto di grande favore nel Rinascimento italiano (una delle epoche predilette e grande fonte d’ispirazione per i poeti ed i pittori fin de siècle) e l’interesse, molto vivo alla fine dell’Ottocento, per i temi esoterici quali occultismo, spiritismo e fenomeni paranormali, hanno certamente giocato un ruolo decisivo, alimentando una corrente interpretativa minoritaria, ma importante, in cui Circe è rappresentata come una maga, non priva di qualità intellettuali.
(John William Waterhouse – Circe, 1911)
Circe è una figura straordinariamente prolifica e come poche altre figure mitiche, caricata di valori simbolici estremamente eterogenei, che coprono la sfera del sociale, culturale, politico e soprattutto del “gender”. Circe finisce dunque nella storia, paradossalmente (lei che in origine è una dea), per divenire uno specchio della condizione umana femminile, oggetto di proiezione delle ansie maschili rispetto alla sessualità femminile ma anche, sia pure più raramente, dei desideri repressi e delle aspirazioni frustrate di intere generazioni di donne.
Pur nella diversità delle letture, si individuano nel corso dei secoli alcune costanti della ricezione di Circe: una di esse è certamente l’erotizzazione del personaggio, una norma alla quale pochissime interpretazioni si sottraggono, nonostante in Omero Circe non tenti affatto di sedurre i compagni di Ulisse e la loro trasformazione in maiali non sia affatto il risultato di un atto di seduzione.
La seconda componente dominante nella ricezione è l’accentuazione degli aspetti negativi di Circe, attraverso l’esaltazione della componente erotica e della componente magica. Questa riduzione negativa giunge talora fino alla completa eliminazione di ogni forma di positività, appiattendo il personaggio su quello di una pericolosa fattucchiera, stravolgendo dunque completamente il suo ruolo rispetto alla versione omerica, dove Circe è sì un personaggio ambivalente, ma fondamentalmente positivo. Proprio la magia apre però la strada ad un’interpretazione “eccentrica”, una corrente minoritaria ma persistente, in cui una Circe benevola (o quantomeno neutra) incarna i valori alternativi della filosofia naturale e del diritto all’autoaffermazione.
Chi è Circe nel XXI secolo? Come abbiamo visto, il mito è una forma aperta, suscettibile di essere riempita di volta in volta di nuovi significati. Non più dea, né maga, né femme fatale, Circe diventa una donna autonoma, capace di scelte coraggiose e contro corrente, modello di una femminilità indipendente e consapevole, che non ha bisogno, per vivere, di una controparte maschile, ma che non rifiuta l’amore e la compagnia di chi, come lei, non ha paura di mettersi in gioco.
Tempio di Circe
Tradizionalmente viene attribuito a Circe il santuario presso il picco occidentale del promontorio, dove è stata rinvenuta nel 1930 una grande testa femminile in marmo (I secolo a.C.), identificata con Circe per la presenza di fori che avrebbero potuto alloggiare i perni di una corona a sette raggi (per via della discendenza di Circe dal Sole). Questa testa, conservata nel Museo Nazionale Romano, potrebbe essere più probabilmente riferita a Venere, raffigurata spesso con un diadema in testa (al quale i fori per la loro posizione potevano benissimo fare da sostegno), sia per il confronto con altre teste della dea, sia per la verosimile presenza di un Afrodision nel Circeo, dove il mirto, pianta sacra a Venere, è decisamente di casa. segue…
(In-canto di Circe, Andreaneri)
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Il percorso sul promontorio del Circeo. segue…
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