Alla scoperta dei paesaggi di bonifica che incorniciano gli itinerari in bici lungo il Tirreno.
Bonifiche in Italia
All’interno della rassegna dei percorsi tematici, dopo l’approfondimento sulle miniere, una pagina dedicata alle bonifiche. Alla scoperta dei paesaggi di bonifica che incorniciano gli itinerari in bici lungo il Tirreno.
L’Italia, paese di paludi, è stata oggetto di una serie progressiva di bonifiche già dall’antichità etrusca e romana. Tuttavia solo a partire dal Settecento la bonifica ha assunto un andamento progressivo e razionale, avvalendosi delle nuove acquisizioni tecniche e culturali. Proprio allora si posero le basi culturali di quella che potremo definire « l’ideologia del bonificamento», come parte integrante della più generale e illuministica idea di civilizzazione.
(malaria in Italia, 1882)
La palude, regno della miseria e dello spopolamento, zona di malaria, divenne l’ostacolo da superare per aprire la via allo sviluppo economico e sociale del nuovo stato.
Con il secondo dopoguerra, le aree di bonifica, da depresse, spopolate e malariche, sono diventate ricche e popolate. Oltre all’agricoltura si è sviluppato l’industria e, nelle aree costiere, una forte economia legata al turismo. Sulla storia della bonifica si chiude una fase e se ne apre un’altra.
(Viareggio anni’60, pedalando da Massa a Pisa)
Oggi la riflessione sulle bonifiche si incontra con la nuova sensibilità ecologica. Chiusa la fase dei prosciugamenti, della conquista di nuova terra, della distruzione dei residui ambienti umidi, delle tensioni sociali che trovavano come sfogo immediato la richiesta di lavori pubblici, è tempo di ripensare all’enorme valore sociale della bonifica quale secolare opera trasformatrice dell’uomo, adeguandone le finalità e le tecniche ad un più equilibrato rapporto dell’uomo con le risorse della natura.
Fotoracconto
> Alcuni scatti pedalando le 1+11 tappe lungo il Tirreno.
Percorsi in bici
Gran parte della costa toscana e laziale è stata oggetto di bonifica nel corso dei millenni. Campi sterminati, pinete, canalizzazioni, idrovore, chiuse sono i segni che rimangono di questa epopea, disseminati nello spazio e nel tempo.
Così, per tracciare un itinerario, sarebbe quasi più facile ragionare per sottrazione, concentrando l’attenzione sulle preziose zone umide risparmiate dalla bonifica. Tutto il resto, oramai interiorizzato una generazione dopo l’altra, è diventato paesaggio, a raccontare lo sforzo antico e rinnovato di ricondurre – stagione dopo stagione – l’acqua al proprio volere.
Segue un elenco dei percorsi in bici alla scoperta dei territori di bonifica lungo la futura ciclovia Tirrenica. Aiutateci ad arricchirlo con nuove proposte.
- Costa grossetana segue…
- Laguna di Orbetello segue…
- Agro Pontino segue…
- l’elenco di tutti i percorsi segue…
Approfondimenti
Riferimenti
Il seguente approfondimento è estratto dal testo “Le bonifiche in Italia, atti del Convegno di Castiglione della Pescaia, 26-27 settembre 1986”, pubblicato da “Accademia economico-agraria dei georgofili, Firenze, anno xxvii – n. 2 dicembre 1987. segue…
Storia della bonifica
L’Italia, paese di paludi, è stata oggetto di una serie progressiva di bonifiche, a partire dall’antichità etrusca e romana. Negli statuti medievali il riferimento a opere di bonifica e di mantenimento dei corsi d’acqua dei fiumi e dei fossi, era costante.
Ma solo a partire dal Settecento la bonifica ha assunto un andamento progressivo e razionale, avvalendosi delle nuove acquisizioni tecniche e culturali. Proprio allora si posero le basi culturali di quella che potremo definire « l’ideologia del bonificamento», come parte integrante della più generale e illuministica idea di civilizzazione.
(scavo collettore S.Rocco, pedalando verso Grosseto)
Tutto ciò che si contrapponeva alla crescita dell’agricoltura costituiva un ostacolo all’espansione delle forze produttive e alla prosperità dei popoli. La ricchezza delle nazioni era agganciata allo sviluppo agricolo, fonte principale del progresso umano.
Si tendeva ad interpretare la bonifica come un episodio centrale della lotta fra l’uomo e l’ambiente. La palude, spazio marginale e selvaggio ed in più «causa» della malaria, veniva a costituire l’ostacolo da eliminare per la messa a cultura di nuove terre.
Con la bonifica, un ecosistema naturale veniva sostituito con un altro, utile a far fronte alla duplice rivoluzione, quella industriale e quella demografica, che domandavano maggiori derrate per sorreggere lo sviluppo.
Grazie alle bonifiche l’Italia è entrata, nonostante limiti e ritardi, nel grande processo della rivoluzione agraria, sia con le opere di bonificamento degli stati preunitari, sia con quelle postunitarie. La bonifica si presentava, allora, come parte integrante della rivoluzione agronomica che dall’Olanda, paese di grandi bonifiche, e dall’Inghilterra, investì il resto dell’Europa.
« Abbiamo preso le acque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride lande. La metà della nostra pianura, più di quattro mila chilòmetri, è dotata d’irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d’acqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cubici ogni giorno. Una parte del piano, per arte eh’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo.
Le terre più uliginose sono mutate in risaje; onde, sotto la stessa latitùdine della Vandèa, della Svizzera, della Tàuride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana. Le acque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condutte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sovra campi più bassi, scórrono a diversi livelli con calcolate velocità, s’incontrano,’ si sorpàssano a pontecanale, si sottopàssano a sifone s’intrècciano in mille modi (…)
Alla condutta di queste acque presiede un principio di diritto, tutto proprio del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo vicendévole passaggio, senza intervento del principe, o decreto d’espropriazione » (Carlo Cattaneo, 1844)
I fiumi e i torrenti che scendono dalle montagne, con le bonifiche si sono trasformati da minaccia in opportunità. Nei periodi di piena primaverili e autunnali, con le loro portate rovinose hanno infatti arricchito di fertili alluvioni immensi territori, creando le condizioni per il loro sfruttamento agricolo.
La produzione agricola non sarebbe però possibile senza un immane e costante lavoro di controllo delle piene, degli alvei e delle arginature dei fiumi, di riempimento e colmata delle depressioni, di canalizzazione e sollevamento delle acque stagnanti. Opere che richiedono interventi costanti, senza i quali il lavoro di decenni e di secoli sarebbe rapidamente vanificato in breve tempo.
La palude, regno della miseria e dello spopolamento, divenne l’ostacolo da superare per aprire la via allo sviluppo economico e sociale del nascente stato unitario italiano. Nel 1865 venne promossa una inchiesta e si scoprì che il 9% dell’intera superficie del regno era «infestata dalla malaria». Nel 1882 con la legge Baccarini lo stato avvocava a sé la responsabilità di promuovere la bonifica, demandando l’attuazione delle opere ai consorzi tra enti pubblici e privati. Tra il 1882 e il 1924 furono bonificate oltre trecentomila ettari di terre, quasi tutte al Nord. In questi stessi anni si realizzò il 60% della bonifica della Valle Padana.
Dalla seconda metà del XIX secolo, la potenza del vapore fece compiere alla storia della bonifica, una importante svolta tecnica. Diventava possibile ciò che prima inutilmente era stato tentato: prosciugare rapidamente i bacini depressi privi di scolo naturale che si incontravano scendendo il corso dei fiumi e che in prossimità della foce davano vita ad un vasto sistema di valli e lagune.
Nel volgere di pochi decenni, la macchina idrovora divenne componente di prima grandezza del paesaggio agrario assicurando il prosciugamento e la trasformazione agricola di centinaia di migliaia di ettari di acquitrini, valli e paludi.
(impianto di Ostia Antica, dalla collezione fotosferica Tevere360... )
Il fascismo promosse la concezione della bonifica integrale. Nel quadro di un intervento globale di natura economica e sociale, la bonifica montana veniva collegata organicamente alle opere idrauliche di pianura.
Oltre che prosciugare le acque, redimere e appoderare le terre, si doveva affrontare anche il problema delle infrastrutture viarie, abitative, sociali. Si doveva inoltre fornire ai coloni le attrezzature tecniche indispensabili per ottenere migliori produzioni.
Con il secondo dopoguerra, emersero nuovi problemi, legati all’esodo dei rurali dalla collina e al decollo industriale. Sulla storia della bonifica si chiuse quindi una fase e se ne aprì un’altra. Non vi era però dubbio che è anche grazie alla bonifica se il nostro paese, fino a ieri deficitario e nonostante il raddoppio della sua popolazione in cento anni, è diventato paese esportatore di prodotti agricoli.
Proprio i terreni bonificati e irrigui svolgono un ruolo primario ed essenziale nell’agricoltura attuale. Queste aree di bonifica, da depresse, spopolate e malariche, sono diventate ricche e popolate, dove oltre all’agricoltura si è sviluppata l’industria e, nelle aree costiere, una forte economia legata al turismo.
È a questo punto che la riflessione sulle bonifiche si incontra con la nuova sensibilità ecologica che ha rivalutato la funzione delle paludi nell’equilibrio ecologico, scrigni di biodiversità e attori principali nella funzione di bacini di regolazione idraulica. Questi, però, sono problemi dell’Italia di oggi e non dell’Italia di ieri.
Chiusa la fase dei prosciugamenti, è tempo di ripensare all’enorme valore sociale della bonifica, quale secolare opera trasformatrice dell’uomo, adeguandone le finalità e le tecniche ad un più equilibrato rapporto dell’uomo con le risorse della natura.
Dai feudi al regime
Il lavoro contadino prestato in forma collettiva è all’origine di quel fenomeno di durata millenaria che è la bonifica. Al lavoro contadino, organizzato tanto dai grandi proprietari feudali e dagli enti religiosi, quanto dagli stessi poteri pubblici comunali e statali, nel corso dei secoli è stato affidato, tramite apposite magistrature, il compito di edificare e di elevare migliaia di chilometri di arginature, di scavare e mantenere libero dalle erbe palustri, ogni anno, il fitto reticolo di scoline, fossi, capifossi e collettori che permette il rapido sgrondo delle acque meteoriche dai campi.
(la costa paludosa toscana in una mappa del 1584)
Nei territori bonificati nessuna forma di agricoltura sarebbe possibile senza un enorme, continuativo e quotidiano investimento di lavoro contadino e capitali, finalizzato a controllare l’intero sistema idraulico dei fiumi che versano le loro acque a valle.
I lavori di arginatura, di escavazione dei canali collettori delle acque di bonifica sono di regola il frutto di una comunità intera. La singola famiglia di coltivatori difficilmente potrebbe infatti affrontare questi sforzi. Ecco perché incontriamo molto precocemente in azione i consortes: la collettività converge le energie per eseguire opere idrauliche di comune interesse.
Col lavoro contadino, gli argini dei fiumi in piena sono stati guardati metro per metro di giorno e di notte, ricostruiti dopo ognuna delle innumerevoli rotte che le acque dei fiumi in piena riuscivano a produrre. È questa la dimensione più vasta ed interessante della bonifica, che sta all’origine di una viva e persistente «cultura idraulica» e che conferisce un peculiare connotato al mondo agrario sorto dalle bonifiche.
(canale Burlamacca, pedalando a Viareggio)
Bonifica idraulica, difesa dalle alluvioni, agricoltura hanno costituito fino quasi ai nostri giorni un trinomio inscindibile, conferendo alla società rurale una rete di solidi legami interni e una sostanziale coesione sociale che troveranno espressione, nel corso degli ultimi secoli, in numerose forme di associazionismo e di solidarietà.
Nascono, contemporaneamente, una «cultura» dell’acqua e una serie di saperi tecnici diffusi che sono, di per sé, forti elementi di avanzamento di imprenditoria e tecnica agricola.
La gestione del complesso sistema delle utenze irrigue contribuisce all’intrecciarsi di una fitta rete di relazioni di solidarietà economico-gestionale nelle campagne, quindi ad una solida strutturazione della società rurale.
Numerose sono le opere di prosciugamento e di trasformazione fondiaria di terre vallive ed acquitrinose, intraprese da singoli grandi proprietari e da gruppi di proprietari riuniti in consorzi.
Attorno alla metà del XVI secolo incontriamo invece, con maggiore frequenza, la figura dell’imprenditore bonificatore, che progetta interventi di trasformazione fondiaria a scopo speculativo, sull’onda di una spinta all’insù dei prezzi della terra e dei prezzi agricoli.
Ottenuta la concessione, gli imprenditori eseguono a proprie spese le opere di risanamento. In cambio, pretendono la consegna, da parte dei proprietari, di una quota delle terre prosciugate e ridotte a coltura. Numerosi sono gli esempi padani di bonifiche eseguite secondo questo modello, soprattutto nel XVI secolo, quando più sentita si fa la pressione sulla terra da parte di una popolazione in aumento, e più assillanti le richieste di derrate alimentari e di cereali che provengono dalle città.
Con l’avvento del fascismo, il regime fa propria, almeno sul piano della propaganda, l’idea della bonifica integrale che era stata elaborata nel primo dopoguerra dalle forze riformistiche e dalle spinte modernizzatrici provenienti dal capitale finanziario italiano.
La bonifica diventava “integrale” proponendo il superamento di una dimensione puramente agraria e idraulica degli interventi. Questi ultimi venivano proiettati in un quadro più complesso di trasformazione fondiaria, agraria e sociale di vaste aree della Penisola. Particolare attenzione viene diretta alla sistemazione idraulica dei bacini montani, alla loro utilizzazione a fini idroelettrici, alla modificazione dei vecchi regimi agrari legati al latifondo e alla coltura estensiva.
La bonifica integrale risultava di fatto dirompente per la realtà agraria del Mezzogiorno, profilando la calata del capitale finanziario del Nord — con i grandi gruppi elettrici in prima fila — e l’avvio di un processo di modernizzazione a macchia di leopardo, capace di scardinare o almeno incrinare il compatto sistema del latifondo e dei rapporti sociali ad esso afferenti.
(agro pontino, 1930, pedalando nel parco del Circeo)
Bonifiche Italia centrale
La lotta alla malaria per la sopravvivenza umana e il recupero produttivo del suolo ai fini di una sua valorizzazione agricola hanno rappresentato nell’Italia Centrale i moventi principali di una secolare attività bonificatrice. In questa area, per la conformazione naturale della penisola, le ristrette pianure alluvionali litoranee, non di rado separate dal mare dalle dune sabbiose dei tomboli, rimasero spesso soggette al ristagno delle acque meteoriche e fluviali, a causa delle precipitazioni irregolarmente distribuite nel corso dell’anno e dei regimi torrentizi della maggior parte dei corsi d’acqua scendenti da rilievi vicini. Pertanto pure le regioni centrali vennero a configurarsi, secondo la celebre definizione di Carlo Cattaneo, come «un immenso deposito di fatiche» umane, più opera dell’uomo che della natura. Altre tessere della grande «patria artificiale» italiana.
I governi toscani e pontifici, ogni volta che promossero operazioni bonificatorie in grande stile, incontrarono però difficoltà di ogni sorta. Non solo e non tanto per le forti spese richieste dagli interventi materiali, quanto per l’opposizione di intere popolazioni, o almeno di certe categorie sociali, che si erano abituate a vivere ai margini dell’economia naturale tipica delle aree paludose. Una palude, infatti, era causa di spopolamento ed insieme fonte non trascurabile di occupazione e di guadagno. Ostacolo e risorsa economica, centro di infezione malarica e vivaio di pesce, luogo di caccia, area di pascolo e di vegetazione palustre, via di trasporto, ecc.
In ogni caso la bonifica, nella sua tendenza a modificare un assetto territoriale già costituito nel tempo, arriva a mettere in discussione interessi economici consolidati per crearne altri nuovi. In questa direzione, vale a dire nel tentativo di sostituire un certo tipo di sfruttamento con un altro, sembrano appunto muoversi tutte le bonifiche laziali e toscane, che perciò non furono e non si possono ridurre a semplici operazioni tecnico-idrauliche, ma costituirono aspetti, momenti e strumenti di più ampie politiche economico-sociali.
(bufalari nel 1934)
La lotta statale contro l’arretratezza delle aree depresse, caratterizzate da un’economia cerealicolo-pastorale estensiva e talora ittica, spesso di tipo comunitario, assunse negli stati dell’Italia Centrale ritmi incalzanti dalla seconda metà del Settecento, quando la crescita demografica impose il reperimento di nuove aree coltivabili in grado di produrre, dietro lo stimolo degli alti prezzi e della libera concorrenza generata dallo sviluppo dell’imprenditorialità privata, grandi quantitativi di derrate sufficienti a soddisfare l’aumentata domanda alimentare.
Secondo ambiziosi programmi di colonizzazione, le nuove zone strappate alle acque, risanate dalla malaria ed inserite in un continuo ciclo produttivo, dovevano accogliere nuova popolazione residente. In aree come quelle maremmane, lo sviluppo produttivo e la modernizzazione dell’agricoltura non espellono manodopera, ma al contrario postulano un incremento demografico.
Nel secolo XVIII una bonifica ambientale prese il posto della bonifica estemporanea dei secoli precedenti, dettata quest’ultima da motivi di natura contingente e dalla mancanza di un organico piano operativo, limitata quindi alla sola realizzazione delle opere non più rinviabili (di solito riguardanti la semplice manutenzione dei manufatti preesistenti).
I nuovi interventi, con il prevalente utilizzo del sistema per canalizzazione, erano rivolti al definitivo risanamento geofisico di intere aree, da recuperare non più soltanto alla coltivazione, ma anche all’insediamento umano, mediante accorte politiche infrastrutturali. In tal senso le bonifiche di Pietro Leopoldo in Toscana e in parte quelle pontine di Pio VI sono già da considerarsi di tipo integrale.
Nel caso del Granducato di Toscana, nella prima metà dell’Ottocento, la bonifica finì per assumere un significato ancora più vasto: essa divenne una sorta di missione civilizzatrice che Leopoldo II sentì il dovere di compiere con una «guerra nazionale» contro le acque e gli altri elementi negativi della natura che avevano impedito per secoli alla Maremma e agli territori impaludati di raggiungere una condizione ambientale, civile ed economica di pari dignità con il resto del paese.
Sotto i governi dell’Italia liberale, le bonifiche non registrarono sensibili progressi (tranne che nell’Agro Romano) anzi, a seguito della noncuranza mostrata per le opere precedentemente effettuate, si assistè in alcuni casi, soprattutto in Toscana, all’ultima avanzata dell’acquitrino e della malaria su zone già risanate o credute tali.
La ripresa massiccia della bonifica a sistema misto (cioè insieme per canalizzazione, colmata e sollevamento meccanico delle acque stagnanti con pompe idrovore) avvenne dagli anni ’20 del Novecento in avanti con la battaglia del grano, la politica autarchica, demografica e ruralista del fascismo e la bonifica integrale dei Consorzi Bonifica locali e dell’Opera Nazionale per i Combattenti.
Alla frammentaria bonifica privata dell’Italia postunitaria, successe una bonifica di regime (direttamente realizzata o ispirata dallo stato e sempre considerata come importante strumento di gestione del consenso) che, grazie ad una congiuntura favorevole e al determinante contributo operativo di una valida scuola tecnica, operò una radicale revisione del modo di intendere e di realizzare l’intervento miglioritario statale. Nacque o meglio fu recuperato ed esteso il concetto di bonifica integrale che al risanamento idraulico ed igienico intendeva affiancare la simultanea trasformazione agraria e la completa modifica dell’assetto territoriale ed antropico.
Toscana
È nella seconda metà del Settecento che la bonifica assunse in Toscana un’importanza prima sconosciuta, allorché per le politiche populazionistiche e liberistiche del tempo, l’aumento dei prezzi dei prodotti cerealicoli stimolò l’allargamento delle coltivazioni su aree fino ad allora restate incolte o marginali. Lo stato, per assicurare il pieno dispiegamento dell’impresa privata e lo sfruttamento mercantile delle risorse, cercò di assicurare per ogni località analoghe condizioni di partenza, intervenendo direttamente nell’esecuzione delle opere di regimazione idraulica.
Nord
Disposto fra Versilia, Lucchesia e Pianura Pisana, il lago di Massaciuccoli è ancora oggi il più esteso della regione. Un tempo era cinque volte più vasto. I suoi due emissari, della Bufalina e della Burlamacca, rimanevano spesso interrati. Le sue gronde palustri generavano e diffondevano la malaria lungo la costa fino a Viareggio.
(Bufalina, tirrenica360_tag)
In Versilia, a nord del comprensorio di Massaciuccoli, si estendevano numerose altre aree impaludate, che solo nel primo Novecento ricevettero una definitiva sistemazione ad opera dei consorzi dei proprietari.
A Viareggio, proprio nell’immediato retroterra della cittadina, lo sviluppo turistico e balneare aveva sollecitato fin da prima un definitivo assetto idraulico, ottenuto negli anni ’30 del XX secolo con l’arginatura e lo sprofondamento del Camaiore e la costruzione di strade, ponti e idrovore.
Centro
La Maremma settentrionale è il resto della fascia costiera che si estende da Prato Ranieri a Rosignano, detta anche Maremma Pisana, costellata fin dall’età moderna da tutto un susseguirsi di acquitrini e di piccoli paduli come quelli di Montegemoli, Rimigliano, Bolgheri, Cecina e Vada. Il paesaggio era simile a quello propriamente maremmano e presentava «campi ed erba», vale a dire un alternarsi di campi nudi, ristretti coltivi, incolti e macchie infestati dalla malaria, sfruttati per lo più a pascolo del bestiame brado.
La bonifica idraulica e il processo di trasformazione fondiaria presero avvio nella prima metà dell’Ottocento, allorché Leopoldo II da una parte effettuò un’importante politica di frazionamento del latifondo (con l’alienazione delle tenute di Cecina e Vada, con la formazione di una media proprietà borghese e con l’incentivazione dell’intensificazione colturale e produttiva) e dall’altro completò la bonifica del padule di Vada, prima con la colmata delle torbe del Tripesce e poi con il sollevamento meccanico delle acque morte mediante patenti pompe a vapore.
Sempre negli stessi anni ’30 cominciarono le colmate dei paduli di Piombino e Montegemoli con le acque della Cornia. Dal 1842 in poi fu prosciugato il lago di Rimigliano, appositamente acquistato dal Demanio per bonificarlo ed allivellarlo. Né va dimenticato il lavoro di costruzione, o almeno di sistemazione, della rete stradale costiera (in primo luogo la via Aurelia da Pisa a Grosseto) che dopo secoli permise il riallacciamento delle comunicazioni fra nord e sud del litorale tirrenico.
Anche qui, dopo l’unificazione nazionale si registrò un completo disinteresse per le opere miglioritarie, con il conseguente ritorno del paludismo. Solo nel primo novecento ripresero i lavori, allorché vennero istallati i primi impianti idrovori, innalzate arginature, eretti sfioratori, ponti, cateratte, ecc..
(casello idraulico sull’Ombrone, tirrenica360_tag)
Sud
L’antica Maremma Senese fu il comprensorio di bonifica toscano che per il suo accentuato degrado ambientale e per la sua virulenta infezione malarica, richiese il più attento e dispendioso intervento. Coincideva con la parte pianeggiante e costiera dell’attuale provincia di Grosseto, fra Follonica e Capalbio.
Il centro malarigeno principale era costituito dal lago di Castiglione della Pescaia, un’immensa palude di circa 50-100 kmq (a seconda delle stagioni ed incluse o meno le sue gronde) che ricopriva gran parte del territorio della comunità omonima ed arrivava a lambire la città di Grosseto e l’Ombrone.
La Maremma rimase a lungo oggetto di politiche economiche contraddittorie sotto la dominazione dei Medici, incerti se considerare e sfruttare questa provincia come area granaio per il vettovagliamento dei centri urbani e della capitale in particolare, come area da pascolo per i greggi transumanti che giungevano a svernare dagli Appennini sui pascoli doganali maremmani o come campo di speculazioni granducali private, soprattutto in materia di pesca e di risorse agro-forestali. L’incapacità di cogliere o almeno di imporre la vocazione della Maremma all’interno del modello di sviluppo toscano, portò ad interventi bonificatori incoerenti ed estemporanei.
Coll’arrivo dei Lorena fu privilegiato senza incertezze il recupero produttivo dell’agricoltura maremmana con una bonifica di ampio raggio. In tal modo la Maremma, da zona depressa e trascurata dai governi precedenti, iniziò il suo lento e faticoso cammino di riavvicinamento al resto dello stato. Anzi, in alcuni casi divenne il banco di prova di ardite politiche ancora tutte da verificare (liberismo, allivellazioni, soppressione della dogana dei paschi, semplificazione dell’apparato fiscale, ecc.), che proprio in seguito al successo riportato nella provincia grossetana (autonoma dal 1766) sarebbero state estese a tutto il Granducato.
(Leopoldo II e la Maremma, tirrenica360_tag)
Nel 1859, alla caduta della dinastia lorenese, la bonifica maremmana non si poteva certamente considerare ultimata (anzi nell’Orbetellano non era neppure iniziata), ma nonostante il permanere della malaria, estese superfici di terreno erano state strappate alle acque. Per di più il risanamento idraulico-ambientale per Pietro Leopoldo e soprattutto per Leopoldo II aveva costituito solo la base di partenza di una più generale politica di rinascita demografica, economica e sociale dell’intera provincia grossetana.
Allora, durante quello che è stato definito a ragione il «risorgimento maremmano» , vennero aperte e sistemate strade, costruiti acquedotti, allestiti ospedali e regolari condotte mediche e farmaceutiche, sperimentata la moderna terapia antimalarica a base di chinino, seminate pinete, eucalipti, pioppi e platani, frazionato il latifondo, incentivata la coltivazione promiscua, edificate case rurali e interi centri abitati (come Follonica). Insomma fu realizzata una vera e propria bonifica integrale con quasi 20 milioni di lire toscane, che permise di trasformare la Maremma da storico «deserto umano», popolato solo stagionalmente da lavoratori «montanini», in provincia stabilmente abitata.
Sotto i governi dell’Italia liberale, le bonifiche maremmane rimasero trascurate, decretando nuovi impaludimenti e recrudescenze malariche. La bonifica ricevette un considerevolissimo sviluppo in periodo fascista, soprattutto dopo il 1928, quando i consorzi bonifica e l’Opera Nazionale per i Combattenti, col forte sostegno finanziario statale, realizzarono il definitivo risanamento ambientale. Sui terreni ancora soggetti a colmata, tutte le aree capaci di un drenaggio naturale furono solcate da una fitta rete di canali che raccoglievano le acque alte per convogliarle al mare. Dove invece ristagnavano le acque basse, furono istallati numerosi impianti idrovori elettrificati. Nacque proprio allora l’aspetto attuale della griglia idrografica e della trama stradale della pianura costiera.
Ci pensò poi l’Ente Maremma a completare, su larga parte della provincia, il frazionamento del latifondo e la sua trasformazione fondiaria, con la diffusione di quella piccola proprietà coltivatrice diretta e di quel tipico insediamento sparso che ancora oggi si può vedere lungo le strade di Maremma. Con l’intensificazione produttiva la malaria scomparve, anche se rimasero alcuni ristagni d’acqua nella Diaccia-Botrona, alla Trappola, nell’Orbetellano e a Burano, che ancora oggi rappresentano «zone umide» di importante valore naturalistico e di fondamentale interesse biologico, meritevoli pertanto di attenta salvaguardia.
(lago di Burano, tirrenica360_tag)
Lazio
Come in Toscana, anche nel Lazio la bonifica presenta una storia tormentata e molto antica. La regione è costituita da zone molto diverse fra loro per paesaggio e aspetti naturali che vanno dalla montagna calcarea ai rilievi vulcanici, dalla pianura alluvionale alla piatta costa sabbiosa.
Fino all’Ottocento le campagne immediatamente circostanti la città di Roma erano fortemente infestate dalla malaria, sicché quasi tutte le leggi sul chinino di stato e addirittura le reti zanzarifughe alle finestre delle case vennero sperimentate nell’Agro Romano e nelle Paludi Pontine.
Le condizioni ambientali, economiche e sociali si presentavano assai simili a quelle della vicina Maremma Grossetana. Anche qui c’erano tortuosi corsi d’acqua a carattere torrentizio, «pescine» costiere, ridossi dunali, laghi, monocoltura cerealicola estensiva, latifondo di proprietari assenteisti, manodopera avventizia stagionale, allevamento brado, greggi transumanti, usi civici e, diciamo pure, un certo adattamento della scarsa popolazione residente a convivere con la malaria e con l’economia tipica dei paesi lagunari agli albori dell’età storica (pesca, caccia, risorse palustri, ecc.).
Non a caso, nei secoli, Maremma Toscana e Laziale sono state la culla del brigantaggio, proprio perché al di fuori del controllo dell’autorità statale e di ogni civile convivenza. In queste aree, per la crisi dell’impresa privata, l’iniziativa bonificatoria non poteva essere assunta che dai governi, perché il regime della proprietà, e soprattutto l’enorme estensione delle paludi, richiedevano un complesso di operazioni radicali e dispendiose che solo le finanze statali potevano affrontare.
Moltissimi papi cercarono di confrontarsi col paludismo, consultando i maggiori esperti italiani e stranieri di ogni tempo, ma con esiti spesso inficiati dalla brevità stessa del loro pontificato. Fu la bonifica integrale fascista ad ottenere proprio qui i suoi più appariscenti risultati, con le più profonde trasformazioni territoriali che la recente storia italiana possa annoverare.
Maremma Laziale
Era uno dei più vasti comprensori dell’Italia Centrale (circa 300.000 ettari), disteso fra il confine toscano e il litorale tirrenico fin quasi a Cerveteri. Una sorta di prolungamento della Maremma Toscana, per la somiglianza dei caratteri fisico-ambientali e produttivi.
La bonifica, che oltre alle prevalenti finalità igienico-sanitarie ne aveva altre di trasformazione fondiaria, iniziò nel 1929 e in un quindicennio portò alla costruzione di numerose opere pubbliche nella pianura di Tarquinia, presso il fiume Marta, e nella bassa valle del Mignone, nelle province di Viterbo e Roma.
Agro Romano
Questo vasto territorio (oltre 200.000 ettari) comprende tutta la campagna circostante la città di Roma, attraversata dal Tevere. Nell’età moderna, soprattutto lungo la costa, al contrario della vicina capitale, presentava un aspetto di desolante abbandono, sia per l’organizzazione agricola che per l’insediamento umano, anche perché posseduto dalla grande proprietà assenteista aristocratica ed ecclesiastica romana, che per tutto l’Ottocento vi deteneva oltre 300 tenute.
(stagni dell’agro romano, mappa del 1844)
L’Agro Romano era fortemente colpito dal paludismo e dalla malaria, per le difficoltà create al regolare deflusso delle acque dai salti e depressioni del suolo, dalla presenza di sorgenti e dalle frequenti esondazioni del Tevere nell’ultimo tratto del suo corso.
Per quanto oggetto di attenzioni bonificatorie fin dall’antichità, solo a fine secolo XIX esso vide le prime consistenti modifiche ambientali. Fino ad allora, ad esempio, in quello che diventerà il comprensorio della bonifica di Maccarese, ossia la parte a nord del Tevere fra l’omonimo stagno e quello delle Paghete, il terreno era ricoperto da formazioni macchiose spontanee, inframezzate a terreni acquitrinosi, incolti a pascolo, qualche ristretto seminativo e aride dune costiere dette «tumoleti».
(bufalari, 1928)
Nel 1870 fu composta una prima Commissione per il bonificamento dell’Agro Romano e nel 1878 fu approvata un’apposita legge che prevedeva, con spese distribuite fra stato e privati, il prosciugamento dei paduli di Ostia, Maccarese, Tartari, Stracciacappe, Almone, Pantano e Baccano, l’allacciamento delle acque sorgive e l’incanalamento degli scoli.
La bonifica di Ostia fu affidata in sub appalto all’Associazione Generale degli Operai Braccianti del Comune di Ravenna. I romagnoli adottano tecniche di lavoro prima sconosciute nell’agro ma ben collaudate nella loro terra d’origine: terrazzieri e scariolanti infatti si servono di attrezzi già utilizzati nelle opere di bonifica delle terre natìe e possono vantare una esperienza indiscussa nel settore. I lavori di scavo dei canali e di costruzione degli impianti proseguono per cinque anni e nel 1889 finalmente si può assistere al prosciugamento completo dello stagno ostiense. segue…
(scarriolanti, dal museo di Mirabello)
Nel 1905 fu ribadita l’obbligatorietà della bonifica nel raggio di 10 km da Roma, nel 1910 furono ridotte le tasse a chi avesse bonificato, e fu costituita una Cassa di Colonizzazione per la concessione di mutui agevolati riservati alla costruzione di borgate rurali. Così dal 1913 al 1921 nacquero la Magliana, Monti S. Paolo, Redicicoli-Bufalotta, Martini-Marescotti e Casalotto, le borgate miste di Vico Acilio, Settecamini, Ottavia, S.Cesario, Tor Sapienza e altri dieci centri di colonizzazione (Cervara, Cecchina, ecc.). Erano i primi nuclei insediativi fissi, fatti per sopperire alla secolare carenza di manodopera locale, fino ad allora sostituita dai lavoratori avventizi stagionali reclutati dal caporalato sui rilievi retrostanti.
Negli anni ’20 del 1900, fu effettuata la sistemazione idraulica di circa 500 ettari compresi fra i fossi Palidoro e Tre Denari, dai Consorzi Riuniti dell’Agro Romano. Ci fu il prosciugamento con idrovore dello Stagno delle Pagliete da parte della Società Maccarese con l’arginatura del torrente Arrone e canalizzazione delle acque basse, fu essiccata la valle di Baccano con l’approfondimento del canale emissario Baccanaccio, e venne compiuta la bonifica di Stracciacappe presso il lago di Bracciano, con il completamento del canale maestro già ‘iniziato a fine secolo XIX.
(impianto irriguo sul Tevere, tirrenica360_tag)
Nell’Agro Romano la bonifica più importante fu quella di Maccarese, zona compresa fra mare e Aurelia, Tevere e Arrone, estesa circa 10.000 ettari, tutti in comune di Roma. Per debellare la malaria che arrivava fino alla capitale, fin dal 1880 erano cominciati lavori pubblici con la costruzione di allaccianti delle acque basse e alte, e prosciugamento dello Stagno di Maccarese. Dal 1926 si provvide al definitivo assetto del territorio, con l’elettrificazione del vecchio impianto idrovoro e l’istallazione di altri due nuovi, la realizzazione della rete d’irrigazione alimentata da numerose stazioni di pompaggio, l’apertura di un centinaio di km di strade, la potabilizzazione dell’acqua dell’Arrone ed un marcato processo di trasformazione fondiaria messo in opera dai rispettivi proprietari (Torlonia, Società Maccarese, Pio Istituto S. Spirito,..). Contemporaneamente fu affrontata la bonifica di altri minori paduli, anch’essi molto perniciosi per i loro effetti malarigeni.
Paludi Pontine
È questa la bonifica per eccellenza della regione laziale, con la quale si misurarono nel corso dei secoli numerosi imperatori romani, papi e i più esperti idraulici. L’area pontina, circa 750 kmq compresi fra i Monti Lepini, i Colli Albani e il Mar Tirreno, era un tempo quasi interamente paludosa, soprattutto nella sua parte interna, già sede antica di una laguna, dove esistevano copiose sorgenti carsiche e torrenti superficiali che non trovavano scolo al mare a causa della presenza di cordoni dunali, scarsa pendenza dei terreni e una fitta vegetazione palustre.
Fu soprattutto nel secolo XVIII che gli sforzi e le attenzioni si moltiplicarono, grazie al miglioramento della tecnica idraulica e all’accresciuto interesse per il fattore terra e il suo sfruttamento. Il drenaggio dei terreni dalle acque meteoriche fu assicurato dalla apertura di venti piccole fosse dette Miliari, perché partenti appunto dalle pietre miliari della Via Appia.
L’opera di maggiore pregio dell’intera bonifica fu la Linea Pio, coi suoi 21 km di corso perfettamente navigabile, aperto su terreni acquitrinosi ed instabili e recante sulla propria destra la nuova strada da Velletri a Terracina (prossima al vecchio tracciato dell’Appia) che abbreviò notevolmente le comunicazioni fra Roma e Napoli.
La trasformazione fondiaria di buona parte delle Paludi Pontine fu affidata all’Opera Nazionale per i Combattenti che dal 1932 in avanti appoderò oltre 54.000 ettari (più altri 11.000 delle Università Agrarie e dei privati), li dotò di 25.000 capi di bestiame, di moderni impianti agricoli intensivi, di costosi macchinari, ecc.
Nel giro di venti anni e con un esborso di circa 2 miliardi di lire, la bonifica integrale fascista portò, seppure in mezzo a facili trionfalismi ed errori, alla fondazione di cinque nuove cittadine (Littoria, cioè Latina, Pontinia, Aprilia, Sabaudia e Pomezia), alla costruzione di quasi 3.000 case coloniche, di vari centri aziendali, di acquedotti, linee elettriche per 640 km, linee telefoniche per 550 km per una popolazione rurale passata dal nulla a 37.000 unità, su una complessiva di 60.000.
Nella nuova provincia di Littoria ci furono poi altre bonifiche minori: attorno al lago di Fondi furono risanati dopo il 1930 alcuni appezzamenti; fu poi bonificato il Pantano di S. Agostino alle spalle del promontorio di Gaeta e infine il Pantano di Barchi presso Terracina. segue…
(Lago di Fogliano, tirrenica360_tag)
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(impianto irriguo sul Tevere, tirrenica360_tag)