La storia della bonifica dell’Agro Pontino, pedalando in compagnia del Tirreno.
Bonifica Agro Pontino
All’interno della rassegna di letture in compagnia del Tirreno e del tema della bonifica in Italia, a corollario degli itinerari in bici per pedalare alla scoperta dell’ agro pontino, dedichiamo una pagina alla storia della bonifica che ha interessato questo territorio.
Testo originale
Il testo seguente è estratto dalla tesi di dottorato di Diego Gallinelli: “Trasformazioni dell’uso e della copertura del suolo, dinamiche territoriali e ricostruzioni gis nei possedimenti pontini della famiglia Caetani“, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE, Dipartimento di Studi Umanistici, Dottorato di ricerca in Storia, territorio e patrimonio culturale. segue…
Pianura pontina
La Pianura Pontina o Agro Pontino rappresenta una pianura costiera del Lazio meridionale, delimitata a nord-ovest dal fiume Astura (che ne segna il limite con l’Agro romano), a nord dai rilievi collinari dell’antico complesso vulcanico dei Colli Albani, da nord-est a sud-est recintata da monti Lepini e Ausoni, mentre a sud, da Torre Astura fino a Terracina, è bagnata dalle acque del Tirreno.
L’aggettivo “pontino” deriva dal latino pontus che significa “mare”. L’area è stata caratterizzata da una lunghissima storia evolutiva. Prima di divenire Pianura e successivamente Agro, l’intero territorio rappresentava un golfo sommerso dalle acque nel quale emergeva l’isola calcarea del Circeo.
(il Circeo visto dal Lido di Latina, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
Il sollevamento non uniforme e il ritiro delle acque marine hanno favorito la formazione di una pianura costiera paludosa caratterizzata da una scarsa pendenza e dalla presenza del cordone dunale parallelo alla costa e longitudinale a tutta la piana che non permette alle acque superficiali di defluire verso il mare. Per questo motivo le acque che scendevano dai rilievi montuosi si spargevano sul territorio, provocando la sommersione costante o stagionale delle aree più pianeggianti. Il ristagno delle acque era favorito anche dall’abbondante e intricata vegetazione palustre, dalle folte macchie e dai fitti boschi (di cui oggi rimangono solo pochissime tracce nel Parco Nazionale del Circeo) che ricoprivano la duna quaternaria e la zona retrostante.
Ambiente
La macchia di Terracina e di Cisterna costituivano una fascia continua di vegetazione a ridosso della linea di costa, tra i cordoni dunali e le paludi retrostanti. Anche nei boschi la presenza dell’acqua era una costante, tant’è che è impossibile definire un’immaginaria linea di confine tra le selve e le paludi.
Canali e rivoli si innervavano in tutta la zona a ridosso della costa e del suo immediato entroterra, andando ad alimentare i laghi costieri che spesso esondavano, creando piscine e stagni. Un ambiente umido tanto complesso quanto ricco di biodiversità animale e vegetale.
I boschi erano costituiti da una trama fitta di vegetazione, a tratti impenetrabile: querce, ontani, olmi, sugheri, cerri, farnie, roveri, ginepri e gelsi. Una natura rigogliosa che suscitava nei viaggiatori sentimenti contrastanti: meraviglia e stupore da una parte, paura e ribrezzo dall’altra. Due brevi descrizioni della seconda metà dell’Ottocento sono emblematiche in tal senso.
Sulla spiaggia di Nettuno ogni coltivazione cessa oltrepassata appena la città, cominciando quasi subito, in tutto il loro squallore, le paludi pontine che si estendono fin verso Terracina. Non più abitati sulla riva, solo sorgono qua e là, solitarie, alla distanza di circa due miglia l’una dall’altra, le antiche torri medioevali. L’aspetto di questa solitudine, di questo deserto, di questa mancanza di coltivazione è grandemente imponente. Pare quasi di non trovarsi più sulle classiche coste d’Italia, ma nei deserti dell’India o dell’America. Il frangersi continuo delle onde, lo scintillare del sole estivo sulla bianca, piana, monotona spiaggia, il cupo bosco infinito che accompagna per qualche centinaio di passi il mare, lo stridore dell’avvoltoio e del falco, il volo dell’aquila, che altissima si libra sulle ali in larghe spire, il calpestio ed il muggito dei tori selvaggi, l’aria, le tinte, l’aspetto delle cose e degli elementi danno veramente qui l’impressione di un mondo deserto e selvaggio. (Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol.1)
A proposito delle selve pontine, Tito Berti esprime tutto il suo timore per un ambiente così selvaggio e pericoloso:
Tutte le vegetazioni palustri si sono accavalciate l’una all’altra: generazioni e generazioni di piante vive, hanno preso stanza sulle piante morte; onde si sono formati dei banchi galleggianti, di torbe, di detriti, di alghe, che da ogni punto insidiano il sandalo, lo circondano, lo stringono […]. Ed ecco che lo stretto canale si allarga, di un tratto, in portentoso e placido lago: l’acqua morta si spande ed insena nella foresta; gli alberi si protendono specchiandosi sulla superficie verdastra; le ninfee dalle larghe foglie si distaccano dall’orlo della gora ed invadono insistenti la superficie delle acque; gruppi di rose silvestri scendono dai rami degli alberi, e vanno a baciare il fiore bianco della ninfea. Davanti a questo spettacolo della natura, orribile e bello, il viaggiatore rimarrebbe a lungo estatico, se non lo tenesse distratto il ronzio del tafano che lo perseguita già da Badino, o il cefalo guizzante fuori dalle acque, o il noioso strepito della cicogna che si affaccia sulla cima di quelle piante […].
Il bosco pontino mette paura e ribrezzo. Prima di penetrarvi copritevi bene il collo e la faccia, perchè nuvoli di grossi tafani vi aspettano in questa caldura […].
Ma in breve i cespugli e gli spini tormentano la gamba del cavallo che montate, e vi trattengono il vestito: alberi d’ogni specie s’incurvano verso di voi, si spiccano dritti, vi chiudono il passo: una fitta rete di arboscelli, di piante, di foglie, vi obbliga a fermarvi: vi fate strada coll’accetta, abbattendo gli ostacoli, ed ecco vi si presenta una gora, verde, putrida, nauseante, ove corrono migliaia d’insetti, ove crescono sotto un sole soffocante migliaia di orribili piante palustri, ove infracidano scheletri di piante arboree.
L’assetto ambientale del territorio pontino prima delle operazioni di bonifica del Novecento si discosta in maniera radicale dal paesaggio contemporaneo. Dal Medioevo fino all’Ottocento, la Pianura Pontina si deve immaginare come un susseguirsi di selve, prati, pascoli, paludi in cui è presente in maniera capillare su tutto il territorio una complessa e disordinata rete idrica. La presenza umana era concentrata sulle prime alture, alle spalle della pianura, con la sola eccezione dei lavoratori stagionali (principalmente pastori e boscaioli) che si insediavano in rozze capanne costruite tra le radure nella macchia.
Il ristagno delle acque era favorito dalle condizioni naturali del territorio (la scarsa pendenza per il deflusso delle acque, le sorgenti carsiche, il cordone della duna quaternaria che ostacolava lo sbocco dei fiumi nel mare), così come l’assenza di manutenzione dei corsi d’acqua. Un paesaggio complesso, ma non completamente inondato. La palude vera e propria era situata nella zona più depressa, in fondo alla valle dell’Amaseno, nei territori di Priverno e Terracina. Nel resto del territorio la presenza dell’acqua era una costante ma non rappresentava un ostacolo allo sviluppo di ambienti diversificati in cui si praticavano attività integrate in grado di alimentare economie redditizie.
La molteplicità dei corsi d’acqua era fondamentale anche per comunicazioni e commerci. Fiumi e canali erano vere e proprie vie d’acqua che permettevano ramificati collegamenti in tutte le località della pianura. In assenza di una rete stradale ben sviluppata (la via Appia fu riattivata completamente solo durante le bonifiche di Pio VI alla fine del Settecento e la via pedemontana non attraversava la palude ma il territorio collinare) la navigazione era il sistema più vantaggioso per spostarsi e trasportare i beni, quasi sempre diretti a Terracina. I mezzi più usati erano le imbarcazioni a chiglia piatta chiamate “sandali”, in grado di navigare i canali poco profondi e ricchi di impedimenti. Da qui il nome sandalaria all’intricato complesso di fiumi e canali percorribili.
La Linea Pia è fiancheggiata da alti olmi, e sulle sue rive cresce la piu ricca flora di gigli acquatici che abbia mai visto. In alcuni punti il canale era impaludato, o era completamente coperto di piante. A causa di questo tre marinai dovettero scendere dalla barca e tirarla dalla riva con una fune, a forza di braccia.
Per quanto ad ogni stagione la Linea Pia venga sottoposta ad un ripulimento, essa è invasa di nuovo prestissimo dalla flora palustre. Il metodo per pulirla è semplicissimo: si caccia qua e la per il canale una frotta di bufali e si fa loro calpestare l’erba. Queste bestie si sforzano naturalmente di liberarsi e di guadagnare la terra ferma, non perchè temano l’acqua, essendo al contrario animali di palude, ma perche la fatica necessaria per strappare e pestare le piante cosi intrecciate, stanca anche la loro possente muscolatura.
Ma i butteri che li accompagnano, li respingono nel pantano colle loro lunghe lancie, ed altri tormentatori stanno dietro sui sandali e fanno lo stesso con delle aste puntute. Il giorno dipoi vidi, sulla via Appia, presso la stazione di Mesa, questa selvaggia scena palustre: è impossibile immaginare qualcosa di più singolare di quei mostri neri ammassati nel canale che, simili a un branco di cavalli del Nilo, agitano le loro teste possenti con le corna piegate all’indietro, sbuffano fuor dell’acqua, mentre faticosamente avanzano nuotando e calpestando. (Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol.1)
Dai popoli italici al medioevo
Prima del periodo medievale, l’aspetto della pianura doveva essere notevolmente diverso. Se consideriamo la sua evoluzione millenaria, il territorio pontino ha rappresentato un paesaggio mutevole, a causa delle intense e diversificate relazioni tra l’uomo e l’ambiente, intercorse nella sua lunghissima storia. I popoli italici e, soprattutto, i romani erano riusciti ad avere la meglio sul disordine idrico grazie a opere ingegneristiche tecnicamente evolute: canalizzazioni e imbrigliamenti dei fiumi avevano permesso di trasformare una parte di ambiente per natura paludoso, in terreni fertili e coltivabili. L’effettiva portata dei loro interventi però è stata talvolta enfatizzata e ingigantita, soprattutto durante le propagande di bonifica più recenti, con l’intento di autocelebrare un’impresa già avviata durante l’Impero ma decaduta durante il periodo buio del Medioevo.
Obiettivo dei romani era infatti dotarsi di vie d’acqua che consentissero dei collegamenti con la parte meridionale del Lazio, non una conversione agricola del territorio. La trasformazione del territorio portata avanti dai romani ha lasciato segni tangibili nel paesaggio, tra tutti la via Appia, che assicurava una comunicazione diretta e sicura tra Roma e la campagna.
La Pianura Pontina cambia radicalmente intorno al X secolo, quando l’attenzione dell’uomo si allenta. La natura si riappropria del territorio, cancellando quasi ovunque i risultati delle imprese precedenti.
Alle campagne coltivate e alla rete idrica canalizzata si sostituivano gli incolti, i boschi, le paludi e le praterie, spazi privi di presenza antropica. In realtà anche questo nuovo paesaggio è stato il risultato di una scelta dell’uomo. L’incuria delle precedenti opere di canalizzazione, la mancata manutenzione degli alvei e degli argini dei fiumi avevano riportato la palude nel suo stato originario perché era mutata la concezione del territorio e delle sue risorse, completamente diversa rispetto a quella delle popolazioni precedenti. Dal Medioevo le comunità pontine intrapresero un’economia non più basata sull’agricoltura ma proprio su quelle risorse naturali di cui la pianura abbondava, tra tutte l’acqua.
Economia della palude
L’ecosistema pontino offriva possibilità e risorse che le popolazioni locali, attraverso attività radicate nei secoli, hanno utilizzato non solo per un’autosufficienza alimentare, ma talvolta anche per alimentare mercati esterni, generando profitti e interessi.
Le risorse degli ambienti paludosi costituivano beni imprescindibili per le comunità locali, al contrario di quanto si possa pensare. Lo sfruttamento dei boschi, degli spazi per il pascolo e, in maniera meno consistente delle aree coltivate, contribuivano a generare quella che è stata definita “economia della palude”. Un’economia principalmente silvo-pastorale, che generava profitti consistenti tanto da attrarre anche attori socio-economici provenienti dall’esterno della Pianura Pontina.
Il territorio si distingue in campi aperti, piani, colli, selve, paludi e monti, alcuni coltivabili et altri nudi, e vestiti di selve. Le campagne sono fertili, abbondanti i colli, grasse le valli, fruttifere le selve, utili le paludi e doviziosi i monti. È tutto irrigato dalle acque, che divise in mari, fiumi, stagni, laghi, rivi, e fonti, lo rinfrescano, lo fecondano, et lo arricchiscono, non solo coll’ùmore, ma anche con abbondanza di buoni pesci. […] Non si ritrova cosa alcuna nel Lazio, et in Italia, che in questo Stato non vi sia, mercé della benignità del temperato cielo, diversità delli siti, et abbondanza della terra; ogni seme vi germoglia, ogni albero vi fa frutto, et ogni genere di animali vi moltiplica (Dell’origine dell’antichissima e nobilissima Casa Caetani, con gli stati che possiede, 1642).
(capanna)
L’abbondanza delle selve garantiva un’efficiente industria del legno, ma anche la presenza di luoghi adatti per la caccia e per il pascolo. L’allevamento costituiva una base importante dell’economia locale, grazie agli ampi spazi pianeggianti ricchi di acqua, inadatti ad essere coltivati, che spesso erano meta di transumanza, non solo per i paesi vicini, ma anche per quelli situati nei rilievi appenninici abruzzesi. Era un ambiente ideale per l’allevamento di buoi e bufali, ma anche di suini e cavalli di razza. L’agricoltura, poco praticata, era localizzata vicino ai centri abitati, sulle pendici collinari meno soggette all’impaludamento, dove si coltivavano frumento, fieno e mais.
I prodotti derivati dalle attività silvo-pastorali – allevamento, caccia e pesca – erano fondamentali per l’economia del Medioevo poiché, a causa della scarsa densità demografica, tutti gli strati sociali della popolazione potevano usufruire dell’abbondanza delle risorse del territorio. Chiunque, sia il signore che il contadino, poteva accedere ai boschi, alle paludi e alle aree incolte mediante il pagamento di un canone. Il sistema economico-produttivo si rifletteva naturalmente anche nel regime alimentare basato principalmente sul consumo della carne. Solo successivamente lo sviluppo dell’agricoltura introdusse un’alimentazione incentrata sui cereali, ma fu un passaggio che nell’area pontina avvenne in ritardo rispetto alle altre zone della penisola.
Le comunità pontine, con la sola eccezione di Terracina, si insediavano sulle prime alture alle spalle della pianura vera e propria, dove il minore impaludamento dei declivi montuosi permetteva forme di agricoltura più stabile. L’economia agricola si basava sul sistema del latifondo, attraverso il quale grandi proprietari terrieri, come famiglie nobili romane ed enti ecclesiastici affittavano a lavoratori locali le peschiere e i terreni destinati all’agricoltura, al pascolo e al bosco. Spesso gli affittuari impiegavano manodopera proveniente dai paesi vicini, posti al di sopra della piana pontina (come Sezze, Sermoneta, Priverno), in gran parte disabitata a causa delle condizioni insalubri dovute al ristagno delle acque e dalla minaccia della malaria nei periodi estivi.
Legname
Le selve abbondavano proprio per la disponibilità illimitata di acqua, fondamentale per alcune specie arboree, come i frassini. il trasporto della legna avveniva sempre per le innumerevoli vie d’acqua che si ramificavano in tutto il territorio e giungevano a Terracina, principale polo commerciale dell’area. Oltre che per la vendita, la legna costituiva anche il materiale indispensabile per la costruzione di imbarcazioni e di capanne, delle quali si servivano i coloni e i pastori quando si spostavano in pianura.
I locali utilizzavano le grandi macchie per il pascolo e/o come fonte quasi inesauribile di legna. L’industria del legname rappresentava, infatti, un’economia redditizia che trovava sbocchi commerciali soprattutto al di fuori del circondario pontino. Se parte della legna veniva utilizzata per i bisogni delle comunità (per il fuoco, per il carbone, per la produzione di barche e costruzioni), la maggior parte era destinata al vicino Regno di Napoli, alla Sicilia, a Roma, alla Toscana e a Genova – perfino a Marsiglia e a Barcellona – per la costruzione di galeoni e galere.
I documenti dell’Archivio Caetani forniscono testimonianze esemplificative:
“Nel Regno non si dispone di legno buono e sufficiente; quindi si fanno trattative con l’amministrazione di casa Caetani per i tagli necessari a Fogliano per la costruzione di un numero grosso di galee e si prevede altre galee per il servizio delle Indie a nome della corona di Spagna” (23 giugno 1607)
La crescente richiesta di legname legata ad ampi circuiti commerciali capitalistici configgeva spesso con usi radicati della popolazione locale, in concorrenza con l’attività dei mercanti. Ne scaturivano conflitti e tensioni sociali tra i diversi attori coinvolti nello sfruttamento dei boschi. In questo scenario, la figura di coloro che controllavano il commercio di legname ha assunto un ruolo sempre più cruciale tra XVIII e XIX secolo: ai loro occhi la foresta era una risorsa inesauribile dalla quale ricavare ricchezza e ascesa sociale/imprenditoriale. Le loro azioni si collocavano frequentemente tra lecito e illecito con conseguenze negative sull’impoverimento del soprassuolo forestale. Questa attività attaccava fortemente l’economia di piccola scala, alimentata da circuiti microcommerciali, fondata su usi e saperi locali in grado di mantenere delicati equlibri tra i molteplici utilizzatori dei boschi.
L’ambiente della macchia era anche legato al fenomeno del brigantaggio, vera e propria piaga sociale dell’area pontina fino alla metà del XIX secolo. I briganti, spesso assassini e delinquenti, trovavano nelle folte macchie dei luoghi in cui era facile nascondersi, a danno dei pastori spesso vittime delle loro aggressioni. Dal Cinquecento per porre freno alla delinquenza dilagante vennero effettuati massicci disboscamenti in modo da avere un maggior controllo di un territorio cruciale per lo Stato perché di frontiera e quindi di passaggio per il Regno di Napoli.
Nonostante i disboscamenti, la quantità della superficie delle aree boschive rimase consistente fino alla bonifica fascista.
Caccia
Così come nelle macchie, anche la palude abbondava di fauna, specialmente di volatili oltre che di diverse specie ittiche. Per questo motivo la Pianura Pontina ha sempre rappresentato un favorevole territorio di caccia, non solo per il sostentamento alimentare locale, ma anche per le grandi cacce pontificie del Cinquecento. Luogo d’elezione per la caccia, soprattutto per l’uccellagione, era la duna quaternaria che correva da Fogliano al Circeo tra il mare e la pianura.
Pastorizia
Le macchie pontine erano meta di transumanza di pastori provenienti da rilievi appenninici della Ciociaria e dell’Abruzzo, che nei mesi invernali scendevano in pianura per pascolare, risalendo l’estate quando la malaria rappresentava una minaccia. Spesso lavoravano per conto di un padrone e la loro permanenza sul territorio è testimoniata anche dal termine “lestre” che si trova in diverse carte storiche. Le lestre rappresentavano i ricoveri degli allevatori transumanti, ovvero capanne di legna e paglia con delle staccionate per racchiudere gli animali (soprattutto bovini e ovini). Nel Settecento se ne contano 46 ed ognuna aveva una sua denominazione; molte di esse erano presenti anche nei primi decenni del Novecento come attestato da numerose fotografie.
Dall’appennino romano, dagli abruzzi una folla di persone viene ad abitarvi. Nell’immensa foresta pontina ognuno ritrova la sua “lestra” cioè una capanna costruita da lui o da quelli che lo hanno preceduto: spesso un antenato, perché le famiglie si sono perpetuate a volte per secoli in alcune di esse. Una staccionata racchiude gli animali; una capanna a forma di arnia le persone. Per conto suo o di un altro, l’occupante pratica uno o parecchi dei mille mestieri della macchia: pastore, vaccaro, parcaio più spesso, talvolta boscaiolo, sempre bracconiere e vagabondo; utilizzando senza scrupoli la macchia come un selvaggio utilizza la foresta vergine, e con la sua attività fornisce un reddito al padrone del terreno, e al suo, che gli ha affidato le bestie, quando queste non gli appartengono. Così passano sette mesi. Arriva giugno, le paludi si asciugano, gli stagni della foresta anche, i bambini tremano dalla febbre, le notizie dal paese sono buone. Per quindici giorni le strade sono coperte di persone che ritornano alle montagne. (de la Blanchere, 1884)
I pastori transumanti erano spesso paragonati a selvaggi della foresta per le condizioni ambientali in cui riuscivano a vivere.
Qualche altra volta, nello scorrere per la foresta, v’imbatterete in vasti spazi ove esistono ancora gli avanzi di rozze capanne distrutte dal ferro e dal fuoco. Qui, non è molto tempo, abitavano, e forse abitano, ancora – chi sa? – genti orribili nel volto e nell’anima. Scendevano dai vicini paesi portando sul braccio l’accetta, e penetravano in questi terreni come conquistatori, tagliando alla foresta piante ed arbusti, seminando il terreno diradato, e facendo pascolare, collo schioppo sulla spalla, buoi e vacche indomiti e selvaggi come loro. Nessun pensiero, nessun affetto umano penetrava in costoro; solo la rapina ed il contrabbando li facevano simili ad altri uomini. Vivevano come gli animali che facevano pascolare, e come essi morivano. (Berti,1884)
Le condizioni ambientali della pianura favorivano quindi attività legate all’allevamento, soprattutto di bufali che necessitavano grandi spazi abbondanti di acqua e vegetazione. Questa attività, a differenza dell’agricoltura, non richiedeva grandi investimenti e l’impiego di molta manodopera. Inoltre, la domanda di carne e dei prodotti derivati dall’allevamento era consistente e garantiva un buon guadagno. Questi fattori, oltre che le difficoltà ambientali, spiegano perché l’agricoltura faticò a imporsi come attività principale dell’area pontina, almeno fino alle bonifiche degli anni Trenta del Novecento. Inoltre, lo stesso governo pontificio aveva interesse nei grandi pascoli, dai quali derivavano notevoli introiti grazie alle dogane: le mandrie che entravano nei pascoli di proprietà dello Stato dovevano pagare la fida.
Pesca
L’ecosistema medievale costituiva una riserva quasi illimitata di pesce di acqua dolce o salmastra, abbondante nei corsi d’acqua e nei laghi costieri, luogo di elezione dove venivano installate le peschiere. Al contrario, i pantani e gli acquitrini non erano aree idonee per la pesca, ma delle conseguenze ambientali causate da questi stessi impianti.
La struttura delle peschiere era complessa e consisteva nell’indirizzare i pesci verso percorsi prestabiliti, dei veri e propri labirinti dai quali non riuscivano a uscire. Erano composte da tavole di legno, sassi e recinti di canne ravvicinate tra loro per creare sbarramenti e strettoie, poste lungo i corsi dei fiumi, in modo da sfruttarne la corrente, sostenuti da grandi pali, impiantati nei letti.
Queste strutture modificavano gli argini dei fiumi, creavano nuove anse, innalzavano i letti dei canali, causando notevoli dissesti ambientali. Favorivano così il divagare delle acque in punti precisi, dove la pesca sarebbe stata più agevole. Negli acquitrini artificiali – detti anche bucche – alimentati dalle fosselle, ovvero aperture lungo gli argini dei fiumi, venivano posizionati i nassari, le nasse, che con lunghe funi venivano assicurate alle rive; ogni peschiera era considerata un’unità di sfruttamento destinata anche alla vendita o all’affitto. L’intero sistema si basava sulla conoscenza dei percorsi dei pesci che durante la “chiamata”, quando il periodo estivo rendeva troppo calde le acque dei corsi d’acqua e dei bacini lacustri, si dirigevano verso il mare per riprodursi. In primavera, invece, gli sbarramenti e gli ostacoli dovevano essere rimossi per consentire ai piccoli pesci di compiere il percorso inverso, in direzione delle acque interne.
Il vantaggio offerto da tali sistemi era notevole, poiché permettevano di conservare il pesce vivo e prenderlo tramite fiocine e retini al momento del bisogno. In questo modo i mercati locali e quello romano potevano essere riforniti di pesce fresco, fattore non scontato visto i lunghi tempi necessari per il trasporto a causa dell’inefficienza della rete viaria. Un metodo alternativo per la conservazione del pescato era la salagione, ma naturalmente il prodotto perdeva in qualità.
Le peschiere necessitavano di una costante manutenzione perché il materiale con cui venivano costruite, essendo sottoposto alla continua azione delle acque, tendeva a deteriorarsi velocemente. Per questo motivo era fondamentale ricavare canne e legna in prossimità delle zone di pesca. La boscaglia e le selve costituivano perciò una risorsa preziosa, non solo per la caccia e l’allevamento, ma anche per l’industria ittica, a testimoniare ancor di più gli usi integrati negli ambienti pontini.
L’attività della pesca causava continuamente conflitti di vario genere, tra tutti quello tra pescatori e agricoltori. Le peschiere, infatti, amplificavano il dissesto idrogeologico, causando spesso esondazioni che allagavano i campi coltivati dagli agricoltori, che con fatica erano riusciti a redimerli dalle acque. In questo scontro perenne avevano spesso la meglio i pescatori, sia perché la natura del territorio si sposava maggiormente con l’attività peschereccia, ma soprattutto perché il commercio del pesce rappresentava una fonte di guadagno ben più costante e remunerativa di quanto non fosse l’agricoltura. Altri problemi generati da questi impianti erano di natura politica, poiché alterare il corso dei canali o inondare le aree a ridosso dei corsi d’acqua significava anche modificare alcune naturali linee di confine tra comunità vicine. Infine, questi invasivi impianti limitavano fortemente anche la navigazione dei sandali perché creavano strettoie e sbarramenti, con ripercussioni negative e pericolose per la navigabilità.
Compare Carmine, l’oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt’e cinque, l’un dopo l’altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell’età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino e si metteva ad ammannire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare l’appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: – Te’! mangia! – Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in città. – Il lago vi dà e il lago vi piglia! – Gli diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine. – Che volete farci, fratel mio? – Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. (“Malaria”, Verga)
Solo una minima quantità del prodotto ittico pontino era destinato al consumo delle comunità locali, la maggior parte alimentava il mercato romano; per questo motivo il commercio ittico rappresentava un’attività altamente remunerativa per i proprietari delle peschiere, per i pescatori e per i commercianti. Il pesce fresco e salato proveniente dal porto di Badino a Terracina arrivava a Roma nel porto di Ripa e veniva venduto sulle pietre del mercato di Sant’Angelo, che si diversificavano in base alla provenienza del pesce, come a voler indicare una differente qualità del pescato tra le diverse peschiere. Le specie erano principalmente di acqua dolce o salmastra; le fonti parlano di anguille (soprattutto salate), storioni, lacce, gamberi e trote. I laghi costieri rifornivano il mercato almeno due, tre volte a settimana (in particolare il venerdì) con trinche, cefali, spigole e orate.
Anche gli istituti religiosi entravano a far parte del complesso e vantaggioso sistema della pesca, tant’è che sul territorio pontino avevano molteplici possedimenti.
Per la Chiesa, ma in generale per la cultura religiosa dell’epoca medievale, il pesce rappresentava un alimento fondamentale perché i precetti religiosi indicavano di astenersi dalla carne per 120-130 giorni all’anno. Inoltre, consumare le specie più ambite divenne per la nobiltà e gli alti prelati un modo per attestare uno stato sociale superiore
Spesso i diritti di pesca di cui godevano, rientravano nei più ampi diritti territoriali che nel corso del Medioevo abbazie, monasteri e capitoli avevano acquisito. In particolare, i laghi costieri divennero luoghi dove gli interessi religiosi si scontrarono con quelli di pescivendoli e di ricche famiglie.
Un metodo di pesca del tutto originale consisteva nel condurre mandrie di bufali nei corsi d’acqua costringendoli ad avanzare. L’impetuoso incedere dei grandi animali intorbidiva l’acqua e obbligava i pesci, spaventati e disorientati, a scappare e a essere poi pescati in zone di facile cattura.
Le reti vengono tirate a un certo punto attraverso la corrente, là si collocano uomini e battelli e altre reti. Un branco di quaranta o cinquanta bufali viene allora fatto entrare nell’acqua, a circa un miglio di distanza, e le bestie vengono fatte nuotare verso le reti, spingendo avanti a sé i disorientati pesci che, non trovando alcuna via d’uscita, saltano dal loro naturale elemento in ogni direzione: e così vengono presi in gran numero. I bufali, quantunque quasi anfibi, sembrano desiderosi di venire fuori e mangiare, dopo essere stati nell’acqua otto ore; la loro uscita è però impedita dagli uomini che, occupando le sponde e i battelli, li respingono con lunghe pertiche; la compatta massa di bufali che nuotano è necessaria per impedire la fuga del pesce. (Arthur John Strutt, 1847)
Queste speciali battute di caccia venivano associate allo spurgo dei canali, sempre ad opera dei bufali. Il loro passaggio, infatti, estirpava l’abbondante vegetazione spontanea dei corsi d’acqua che, se non ripuliti, non potevano essere navigati con facilità. Non si ripetevano più di due volte l’anno, anche per preservare la distruzione degli argini dei fiumi e la fauna ittica.
La tecnica di ripulire gli alvei con i bufali rimane in vigore sino alla fine dell’Ottocento e difficilmente si sostituisce con attrezzature più moderne, soprattutto perché veniva considerata una pratica efficace.
La centralità del bufalo nei molteplici lavori in cui era necessaria la sua presenza è sottolineata dallo studioso Alessandro Ferrajoli nel 1891:
La predilezione, la fede, l’entusiasmo degli agricoltori pontini per queste macchine viventi non hanno limite; ed è assioma comune tra loro che ‘il vero ingegnere della bonifica è il bufalo’. E non a torto; dacchè, malgrado studi, ricerche e promesse di premio non è stato possibile sinora trovare una macchina che sostituisse efficacemente l’opera di quegli animali.
La pesca nelle acque interne consentiva un approvvigionamento costante e di qualità, ed era sicuramente meno pericolosa rispetto alla pesca in mare, soprattutto durante il periodo invernale, quando le burrasche non permettevano alle imbarcazioni, tecnicamente limitate, di prendere il largo.
I laghi costieri rappresentavano veri e propri vivai ittici, collegati l’un l’altro da una serie di canali e separati dal mare dal cordone dunale, ma non per questo completamente distaccati da esso. Durante l’alta marea o l’innalzamento del livello delle acque lacustri a causa delle piogge, si verificava un interscambio di acque tra i bacini salmastri e il mare, favorendo la presenza di una consistente e diversificata fauna ittica.
Continua tuttora la pesca con i metodi, pressochè immutati, in uso da oltre duemila anni, e le belle spigole ed i cefali di Fogliano, accomodati in ceste con la neve di montagna, vengono ogni settimana trasportati a traverso le secolari macchie ad allietare la mensa delle famiglie romane che sono in grado di pagarsi tanto lusso (Gelasio Caetani, 1927)
I Caetani non avevano alcun interesse a bonificare le aree intorno al lago per farne delle terre coltivate, o vedersi espropriare parte delle loro proprietà in cambio di un’indennità non paragonabile alle ricchezze ricavate dalla pesca. I prosciugamenti rischiavano di compromettere l’ecosistema e quindi le rendite della famiglia.
Il pesce di acqua dolce consumato a Roma non proveniva solo dall’area pontina, ma anche dai laghi vulcanici dello Stato e dagli stessi fiumi interni alle mura, l’Aniene e soprattutto il Tevere fino al delta, entrambi molto pescosi. La crescita urbana e politica di Roma indirizzava la città in circuiti commerciali più ampi, di scala europea, che interessavano anche la pesca. Nel XVIII secolo Civitavecchia divenne un polo commerciale fondamentale nel sistema mediterraneo e atlantico. Le importazioni riguardavano pesce salato o disseccato, soprattutto il baccalà o lo stoccafisso, di qualità e a prezzi relativamente bassi.
Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: “Il pane che si mangia bisogna sudarlo”. (“Malaria”, Verga)
(il lago e la duna a Sabaudia, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
Papato e aristocrazia
Se dal punto di vista ambientale la regione pontina può essere considerata uno spazio ben definito, incerta è stata la sua definizione storica e amministrativa. L’agro pontino nel Lazio occupa una buona parte di territorio che la storiografia medievistica ha per lungo tempo inserito all’interno di “Campagna e Marittima”, una delle cinque provincie dello Stato pontificio, insieme al Patrimonio di San Pietro, il Ducato di Spoleto, la Marca anconitana e la Romagna.
La posizione di frontiera tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, ne faceva un’area strategica, da controllare attentamente in modo diretto e indiretto tramite il giuramento vassallatico di alcune famiglie. In particolare, i castelli situati in punti nodali degli assi viari, assumevano una funzione di controllo per tutta la viabilità da Roma fino a Napoli. Avere in mano le vie di comunicazioni, gestire gli scambi e la sicurezza degli stessi, garantiva il governo dell’intero territorio.
In questo territorio, l’influenza dello Stato della Chiesa è stata determinante sotto l’aspetto politico, culturale, sociale ed economico. Tra il l XII e il XIII secolo la Chiesa era riuscita a recuperare vasti territori nell’Italia centrale. Fondamentali in tal senso furono gli accordi con i signori locali, che garantivano al papato una solida base economica in cambio di concessioni di castra e diritti su grandi aree.
Il controllo papale veniva esercitato tramite i consolidamento di poteri locali, soggetti all’autorità pontificia, o di realtà esterne costituite da potenti famiglie romane spesso legate ai pontefici da rapporti di parentela. Durante il lungo governo da parte dello Stato si alternavano periodi in cui il controllo diretto da parte di Roma era più forte, ad altri in cui veniva concesso a potenti gruppi familiari l’estensione della propria sfera di influenza.
In particolare, emersero con forza alcune famiglie dell’aristocrazia romana, capaci di esercitare un’influenza notevole su tutta la Campagna e Marittima, tra queste: i Frangipane, i Colonna, gli Orsini, i Conti, gli Annibaldi, i Savelli e i Caetani. Legati da rapporti anche di parentela con i pontefici, i nuovi barones Urbis mutarono il volto dell’aristocrazia romana, riuscendo a ottenere posizioni privilegiate nell’apparato ecclesiastico.
L’accrescimento di potere smisurato di alcune famiglie romane univa a ruoli di primo piano nella politica il predominio sulle vaste tenute dell’Agro romano, da cui generavano introiti cospicui alle loro già ingenti finanze. Per far carriera negli ambienti romani era infatti indispensabile possedere un feudo, non solo perché garantiva un’affidabilità economica, ma era motivo di prestigio per la famiglia che poteva esercitare la propria giurisdizione sugli infeudati. Questi ultimi non si devono immaginare come vittime di un potere tiranno; al contrario, in alcuni casi, essere soggetti a un signore significava anche godere di protezione e tutela dalle minacce dei comuni vicini, o essere avvantaggiati con una concessione più ampia di diritti.
La sovranità veniva esercitata anche con la richiesta di canoni fondiari e imposte particolarmente consistenti e l’obbligo di rifornire le milizie con uomini, anche contadini se necessario.
Il potere dei signori nei feudi laziali fu forte e duraturo. Al momento di un acquisto tutte le terre che precedentemente erano di proprietà degli abitanti, passavano al signore e gli antichi proprietari diventavano così infeudati. Come sostiene Gerard Delille quindi, fino alla definitiva abolizione della feudalità nel Lazio meridionale, la dinamica di potere si poggerà su un rapporto triangolare ai cui vertici si posizioneranno il papato, i feudatari e le comunità locali, in uno scenario più simile a quello del Regno di Napoli che all’Italia centrale.
Tra la fine del XIII e il XV secolo la famiglia dei Caetani riusciva a governare l’intera Marittima con l’eccezione di Sezze, Priverno e Terracina. Questa posizione strategica permetteva alla famiglia di avere un ruolo sempre di primo piano nelle dinamiche territoriali ed economiche che interessavano non solo la Marittima, ma tutto lo Stato ecclesiastico.
La gestione del territorio da parte del casato dei Caetani rispondeva a precise logiche economiche che tendevano a sfruttare al massimo le risorse ambientali per generare notevoli profitti. Negli ampi spazi privi di popolazione e in gran parte acquitrinosi si prediligeva l’attività dell’allevamento, legato anche alla transumanza; le aree boschive di Ninfa e le selve marittime erano sfruttate per una redditizia industria del legname e le attività venatorie; i corsi d’acqua servivano non solo per le peschiere ma per alimentare mulini e impianti manufatturieri; a Cisterna e a Sermoneta si coltivava grano e alberi da frutto, in prossimità dei centri abitati, e viti e olivi nelle pendici collinari.
Il maggior profitto dei Caetani derivava da una gestione indiretta, ovvero dai grandi affitti che garantivano una rendita fissa, con sforzi ridotti, e al riparo dalle incertezze della produzione agricola.
Oltre gli affitti le rendite erano generate da tutta una serie di diritti feudali concessi ai vassalli (pesca, fida, erbatico, spigatico) e da varie gabelle per la caccia e la pesca per le quali serviva la loro concessione.
Congregazione delle Acque
I fiumi e i canali segnavano anche i confini tra le comunità, servivano per irrigare, costituivano efficienti vie di comunicazioni. Diverse funzioni che però difficilmente riuscivano a coesistere: le peschiere erano un ostacolo per il transito dei sandali, le imbarcazioni che navigavano l’agro pontino; gli straripamenti cancellavano i confini; le deviazioni dei corsi d’acqua inondavano i campi impossibili da coltivare. Gli usi diversificati si scontravano; prediligerne uno significava causare ripercussioni negative sull’altro, e difficilmente si arrivava a una soluzione pacifica.
Frequentemente i rappresentati dello Stato erano inviati sul posto per dirimere liti e controversie. Infatti, i fiumi e le acque dello Stato ecclesiastico erano considerati di proprietà papale e, attraverso concessioni feudali, potevano essere ceduti a signori locali o enti ecclesiastici, i quali a loro volta potevano affittarli ai singoli o alle comunità .
Per questo motivo, già dal XII secolo, nacquero delle figure di tecnici (periti artis fossarie) con il compito di valutare le condizioni idrografiche e lo stato dei canali, di indicare le misure dei corsi d’acqua e, in alcuni casi, di progettare lo scavo dei fossi per asciugare i territori sommersi dalle acque. Simile, a Sermoneta, era l’ufficio degli acquaroli che aveva il compito di prevenire le esondazioni nelle aree coltivate, di assicurare la pulizia dei fossati, la riparazione dei ponti, la manutenzione delle fogne e di controllare le acque piovane. Dovevano anche stimare i danni e comminare una multa per chi fosse stato individuato come responsabile degli stessi.
Le problematiche in materia erano numerose e variegate per natura, tant’è che tra XVI e XVIII secolo vennero istituite ben quattro congregazioni con dei compiti più specifici: Congregatio super viis fontibus et pontibus, la Presidenza di Acque e Strade, la Presidenza degli Acquedotti Urbani e la Congregazione delle Acque. In questo modo si ridussero le ambiguità sulle molteplici tematiche riguardanti la gestione idrica, assegnando ad ogni organo piena autonomia.
L’organo più influente nel territorio pontino fu la Congregazione delle Acque (operò dal 1619 al 1833), spesso chiamata in causa per giudicare una controversia o per dirimere una denuncia, prendendo decisioni che il governatore di Campagna e Marittima doveva tramutare in provvedimenti.
Gli ambiti di intervento riguardavano le acque fluviali, paludose e lacustri e le problematiche ad esse connesse come navigazione, gestione, canalizzazione, bonifiche, compravendite, ecc. Aveva il potere di prendere provvedimenti non solo sulle proprietà della Chiesa, ma anche sui territori comunali e/o privati che avessero corsi d’acqua o luoghi ad essi limitrofi. Da questo organo, sotto Urbano VIII (1623-1644), nacque la Congregazione delle Paludi Pontine con il compito specifico di effettuare sopralluoghi per monitorare lo stato ambientale e produrre elaborati tecnici, volti a eventuali lavori di prosciugamento.
L’impero colpisce ancora
Nel corso dei secoli l’economia pontina aveva trovato un suo equilibrio, e gli abitanti non sentivano il bisogno di alterarlo a discapito delle proprie attività. Chi viveva in quei territori usufruiva di una fonte quasi illimitata di riserve dalle quali attingere per alimentare l’economia locale: boschi e canneti per fare legna; fiumi, stagni e laghi per pescare; zone incolte e praterie per pascolare; spazi aperti per coltivare nelle aree a ridosso dei centri abitati.
Le attività economiche pontine si basavano per gran parte sugli ambienti umidi in grado di offrire risorse abbondanti per una popolazione in crescita, senza un impiego di capitali e di manodopera gravoso. Per questo motivo non era avvertita la necessità di prosciugare gli ambienti paludosi.
Agli inizi del XVI secolo l’atteggiamento nei confronti delle attività connesse allo sfruttamento delle acque iniziò a cambiare, almeno da parte dello Stato pontificio. La convinzione di poter trasformare la pianura in un forte centro di produzione cerealicola divenne sempre più forte all’interno degli organi decisionali dello Stato, meno tra la popolazione locale che, salvo rari casi, lottò strenuamente per non modificare un territorio che ben rispondeva alle sue necessità.
L’economia della palude non trovava quindi più riscontro nei piani economici dello Stato, tesi a fare della regione un importante fulcro del mercato e del commercio, e di tramutarla nel “granaio di Roma”. L’interesse di Roma verso questa regione di frontiera è sempre stato forte anche per la sua posizione strategica, a confine con il Regno di Napoli. Uno scenario che mal si conciliava con l’esistenza di paludi e boschi impenetrabili. Le bonifiche avrebbero non solo alterato completamente un paesaggio produttivo per i locali, ma sarebbero – e in effetti sono state – un pretesto per ottenere il controllo del territorio da parte del potere centrale, sottraendo i diritti e gli usi (tra tutti la pesca) delle comunità.
La storia della Pianura Pontina è stata quindi un intervallarsi di tentativi, spesso fallimentari, di bonifiche del suo territorio. Nel corso dei secoli, la regimazione delle acque ha infatti rappresentato lo sforzo maggiore di chi governava e deteneva il potere su questa regione.
Tentativi rinforzati dal pensiero dell’epoca, che ha spesso giudicato la palude come un luogo inadatto alla vita dell’uomo e di riflesso privo di qualsiasi opportunità economica e produttiva. Questa concezione culturale ha giustificato qualsiasi tipo di intervento atto a modificare o distruggere tale ecosistema. Le bonifiche sono state considerate come l’unico mezzo per redimere un paesaggio così ostile.
A ogni tentativo di bonifica non mancarono quindi proteste, liti e veri e propri sabotaggi da parte dei “paludari” per difendere, in maniera più o meno lecita, gli spazi di loro proprietà, sottratti dai bonificatori. Infatti, se in un primo momento i progetti di bonifica prevedevano un investimento di capitale nella pianura sotto forma di salari e opere pubbliche, lo stesso capitale tornava nelle mani dei ricchi proprietari, che vedevano rapidamente aumentare le rendite di quei terreni bonificati dai quali i locali erano esclusi.
Le comunità locali venivano quindi escluse dai vantaggi economici delle bonifiche, al contrario dei promotori degli interventi idraulici, provenienti dall’esterno della regione pontina, che tendevano a trarre la massima rendita dai terreni prosciugati. Della loro voce e delle loro condanne non emerge traccia nelle fonti redatte dallo Stato, che invece tendono a giustificare gli interventi provenienti da Roma.
Fernand Braudel definisce “coloniale” la forma con la quale, nell’età moderna, la città e lo stato hanno trattato le pianure da sottomettere ai propri interessi economici. In questo contesto, la bonifica si traduce in una forma di conquista e in un pretesto per intervenire, generando una lotta tra chi cerca di mantenere lo status quo e chi invece cerca di imporre un nuovo piano progettuale con cui riorganizzare gli spazi giudicati “selvaggi” o poco produttivi.
I progetti di bonifica prevedevano la concessione delle terre ai bonificatori,con ingenti perdite finanziarie per le comunità alle quali venivano sottratti spazi solo apparentemente improduttivi. Alla base di questo processo emerge il dominio della città – in questo caso Roma – sulla periferia, tramite l’imposizione di un modello produttivo basato sulla coltivazione cerealicola, che rispondeva alle esigenze dello Stato, ma che non si sposava con le caratteristiche del territorio. L’essiccazione delle terre non avrebbe posto solo la parola fine all’industria ittica, ma avrebbe avuto un riflesso negativo anche sul commercio del legname, ad esempio. In questa lotta secolare tra i poteri centrali e le comunità pontine, sono quasi sempre queste ultime ad avere la meglio.
Le iniziative di bonifica nel corso dei secoli hanno quindi collezionato un susseguirsi di tentativi spesso fallimentari, non tanto per difficoltà tecniche e ambientali, quanto per la strenua opposizione delle comunità locali. Ogni progetto di prosciugamento veniva preceduto da relazioni tecniche di ingegneri idraulici nelle quali emergeva l’ottimismo sul possibile intervento di bonifica. Le conclusioni comuni erano che le cause delle condizioni paludose dell’area erano in minima parte dovute alle caratteristiche ambientali, quanto piuttosto da imputare alle attività dell’uomo, in particolare per l’utilizzo delle peschiere, che venivano viste come un ostacolo alla bonifica.
Non vi è stato perito idrostatico, che visitate abbia le Paludi Pontine, a cui per dir così non abbia recato orrore l’irregolar costruzione delle peschiere. Un fiume largo 100 e più palmi costretto a scorrere in un ristretto sito di nove, di dieci palmi, e con la tassatura delle breccie e sassi impossibilitato a potersi nell’ angustia scavare il fondo, deve per necessità alzare il pelo dell’ acque sue e queste dall’una e dall’ altra parte di argini mancante disalveare a danno delle vicine campagne; deve inevitabilmente perdersi nelle parti superiori il regolar moto delle acque, deve prodursi de’ rigurgiti; devono impossibilitarsi gli scoli (Giulio Sperandini, 1777)
L’ostruzionismo alla bonifica talvolta veniva alimentato, paradossalmente , anche da coloro che dovevano preservare le operazioni di bonifica mediante controlli incisivi sulle peschiere, riconosciute come le vere “nemiche” dei progetti di prosciugamento. L’ambiguità più grande era rappresentata dai cardinali e dagli enti ecclesiastici che detenevano la gestione delle peschiere. Mentre una parte dello Stato osteggiava questi metodi di pesca, l’altra incentivava e preservava le peschiere perché fonte di reddito non solo personale, ma financo statale. Emblematico in questo senso il comportamento della Congregazione delle acque, nata per dirimere problematiche e contese, ma di fatto portatrice di interessi.
Storia delle bonifiche
I tentativi dei papi
Il primo organico intervento di prosciugamento della Palude Pontina venne messo in campo nel 1513 per volere di Leone X. Nel progetto fu coinvolto anche Leonardo da Vinci, considerato uno dei dei migliori ingengneri militari e idraulici dell’epoca. Il progetto della bonifica medicea consisteva principalmente nell’allargare l’alveo del Rio Martino nel quale sarebbero dovuti confluire le acque superiori (del Teppia, del Ninfa, dell’Acquapuzza e della Cavatella), provenienti dalle zone di Sermoneta e Sezze, e di realizzare un nuovo percorso più rettilineo per il tratto finale del fiume Eufente, presso il quale convogliavano anche le acque dell’Amaseno, fino alla foce a Badino presso Terracina.
La sistemazione del Rio Martino rappresentava un punto cardine dei lavori. Il fiume, infatti, era l’unico corso d’acqua che tagliava perpendicolarmente la pianura, sfociando nel lago di Fogliano a sua volta comunicante con il mare. L’importanza di questo fiume per il futuro disseccamento della pianura era stata percepita anche nei secoli precedenti, poiché se ne trova traccia anche in progetti anteriori. L’origine del Rio Martino si deve ai romani che scavarono un canale lungo 4 chilometri e profondo 30 metri, riuscendo a dare sfogo alle acque superiori della palude. Nel corso deil tempo le sue sponde franarono, ostruendone il fondo, e l’incuria dei governi successivi contribuì alla sua non corretta azione di drenaggio. Sul suo stato Tito Berti nelDaniel 1884 scrive «il Rio Martino, a memoria di uomini, non ha servito allo scopo per cui fu fatto. L’acqua impaluda laggiù, stretta tra gli ostacoli accumulati dal tempo, e che ne hanno in alcuni punti talmente rialzato il fondo da far dubitare se veramente il canale abbia in qualche epoca servito a dar passo alle acque»
Il Rio Martino scorreva però nei possedimenti Caetani, nella pianura di Piscinara, dove argini erano proprietà della famiglia. Ogni intervento sul fiume doveva quindi incontrare il favore del Duca, a partire dal sopralluogo degli architetti, incaricati di valutare la fattibilità del progetto e stimare i costi dell’intervento. Infatti, se da un lato la giurisdizione sulle acque e il possesso delle stesse erano di pertinenza papale, altrettanto non si può dire per i terreni adiacenti alle sponde dei fiumi. Considerando che lo sfruttamento delle acque rappresentava per la famiglia Caetani una cospicua fonte di reddito e che molte erano le peschiere di loro proprietà poste lungo i corsi d’acqua e nel lago di Fogliano, si può quindi facilmente intuire l’ostilità della famiglia a ogni intervento di bonifica che potesse compromettere i loro guadagni.
Dopo Leone X, ci provò Sisto V, che alla fine del Cinquecento si trovò ad affrontare una grave crisi agricola che lo spinse, nel 1586, ad avviare un progetto di bonifica pontina con l’intento di fare della pianura il nuovo granaio di Roma. I pochi progetti rimasero però solo sulla carta, tant’è che l’estensione della palude aumentò.
Nel Seicento La questione delle Paludi Pontine ebbe un risalto anche al di fuori dei confini delle Stato. In particolare, furono gli olandesi, esperti bonificatori in patria, ad avanzare diverse proposte per il risanamento della pianura.
Nei problemi riscontrati nelle perlustrazioni, oltre alla presenza massiccia e invasiva delle peschiere, veniva riportata la mancanza di opere di manutenzione che non vanificassero gli sforzi precedenti. Infatti, al contrario di altre zone della penisola come il Regno di Napoli o nelle pianure padane, l’Agro Pontino non aveva città ricche e popolose, ma solo comunità piccole e spesso assoggettate al potere feudale. La campagna era quindi in gran parte spopolata, anche a causa della malaria. Per rendere stabile il prosciugamento, invece, erano necessari continui interventi di manutenzione che solo una presenza massiccia dell’uomo e di capitali potevano garantire. L’insediamento di comunità e di famiglie contadine che dal lavoro agricolo traevano la loro fonte di guadagno e avevano tutti gli interessi a mantenere i terreni asciutti avrebbe garantito una continuità alle opere di drenaggio, ma non fu questo il caso della Pianura Pontina.
Poiché gli sforzi statali del secolo precedente avevano prodotto risultati effimeri, si tentò di attivare l’ iniziativa privata garantendo concessioni di usufrutto sui territori prosciugati, ma le clausole definite per limitare i danni alle attività pre esistenti erano in palese contrasto con l’interesse dell’appaltatore nel cercare di trarre il massimo profitto dall’impresa. Il risultato fu l’ennesimo fallimento.
Nel Settecento diverse testimonianze descrivono lo stupore dei viaggiatori per il paesaggio pontino, meta del Grand Tour, nel quale si poteva ammirare sia la bellezza della natura mediterranea, sia la meraviglia del fascino della romanità. Tra i più celebri viaggiatori anche Goethe, il 13 febbraio 1787, che a proposito delle paludi scrive “Le Paludi Pontine sono l’angolo più selvaggio e affascinante di Europa”.
Il progetto di bonifica di Pio VI, sul finire del ‘700, ha rappresentato un punto di svolta perché ha investito la sfera ambientale, economica e infrastrutturale. Nella nuova organizzazione territoriale, infatti, la bonifica è stato un elemento tanto importante quanto il miglioramento viario, di navigazione, il risanamento urbano e un nuovo slancio nel commercio.
L’attenzione del pontefice verso un’opera che gli avrebbe assicurato fama e prestigio, non solo tra i contemporanei ma anche nei secoli successivi, è testimoniata dalle quindici visite che intraprese, quasi annualmente, dal 1778 al 1796. Lo spirito illuministico del periodo infuse una fiducia quasi incondizionata sulla possibile bonificazione dell’Agro Pontino.
Purtroppo, anche in questa occasione si riproposero gli stessi impedimenti del passato: l’arricchimento di pochi, tra cui i principali protagonisti del progetto, fu anteposto agli interessi della collettività. Torna quindi protagonista l’ostilità delle comunità locali. Le controversie, i sabotaggi, le continue proteste dei paesi della palude furono la vera causa del fallimento generale. I parziali insuccessi però non devono far dimenticare che l’ambiziosa opera di Pio VI ha rappresentato il tentativo più valido di sistemazione idrica fino ad allora tentato. I venti anni di lavoro e l’ingente somma spesa portarono anche a risultati concreti e funzionali mai raggiunti precedentemente.
Nell’ottica politica più ampia è necessario tenere in considerazione anche il ruolo del Regno di Napoli che aveva tutti gli interessi a ostacolare un’eventuale bonifica che avrebbe avvantaggiato uno stato confinante e rivale.
L’intervento fascista
Le comunità insediate in tale ambiente hanno spesso intrapreso azioni altamente in contrasto con gli equilibri ecologici: canalizzazioni delle acque, spostamenti degli argini, innalzamenti degli alvei, incendi, disboscamenti e dissodamenti. Queste modifiche, dettate dalle necessità delle popolazioni, alteravano, anche in maniera consistente, le condizioni ambientali degli ambienti pontini. La natura però ha spesso riacquisito nel tempo quegli spazi e ripristinato le condizioni originarie.
Solo con le bonifiche integrali del regime fascista la natura si è dovuta arrendere all’avanzamento tecnico dell’uomo. Le parole di Lucio Gambi mettono in risalto la contrapposizione tra gli interventi umani del passato e quelli moderni, quest’ultimi caratterizzati da un’accelerazione temporale in contrasto con i tempi naturali:
Quanto c’è di temibile nel fatto che la bonifica di breve periodo […] con l’aiuto di tecnologie via via più avanzate può sostituirsi a quella di lungo periodo, che meglio ricalca con i suoi ritmi e a volte con i suoi processi i canoni della natura e alla natura fa minore violenza?
Il Fascismo vedeva nel recupero dei terreni marginali e nella colonizzazione degli ampi spazi della pianura la soluzione per l’autosufficienza alimentare dell’Italia, basata su quella che è stata definita la “battaglia del grano”.
Il successo della bonifica fascista, si è tradotto in una completa utilizzazione agricola del suolo, con notevoli benefici economici, ma anche nella perdita definitiva dell’identità originaria, della sedimentazione dei prodotti storici e delle caratteristiche culturali che costituivano il patrimonio del luogo.
La radicale trasformazione del territorio pontino venne attuata attraverso un progetto di bonifica profondamente diverso rispetto a quelli descritti precedentemente. Se nei secoli precedenti al Novecento i progetti di risanamento della Pianura Pontina consistevano nel creare un ordine idrico tramite il riuso di antichi canali appositamente spurgati o la creazione di nuovi collettori che si inserivano armonicamente nel contesto naturale, lo stesso non si può dire per l’ultima bonifica.
Il volto del paesaggio è stato completamente stravolto: gli elementi idrogeologici sono stati sostituiti da opere antropiche, quelli ambientali sono stati cancellati per far posto a un paesaggio agricolo completamente artificiale.
La novità alla base della definitiva riuscita del prosciugamento dei terreni paludosi fu l’introduzione della tecnologia, in particolare l’utilizzazione di macchine idrovore provviste di pompe di sollevamento, in grado di drenare un’enorme quantità di acqua e di depositarla, attraverso canali preesistenti e di nuova costruzione, in appositi bacini artificiali. Solo in questo modo si riuscì effettivamente a prosciugare i terreni morfologicamente inadatti a un drenaggio naturale e a ridurre drasticamente i tempi di realizzazione.
Nel romanzo di Antonio Pennacchi, Piscinara, una delle aree più colpite dal ristagno delle acque, viene così descritta dai coloni appena arrivati dal nord Italia
«[…] noi arrivammo che Piscinara era già prosciugata. Una tabula rasa. Un tappeto di biliardo. Neanche un albero all’orizzonte di tutti quei boschi e foreste che […] c’erano prima, pullulanti di bestie e briganti assassini scappati dai paesi loro sopra le montagne. Neanche più una goccia d’acqua, un filo d’erba, e noi arrivammo in trentamila a popolare come birilli inermi questo tappeto di biliardo, un vuoto senza fine, tutto asciutto e terra vergine. Sembrava il deserto […]»
Il progetto di bonifica consisteva nella separazione delle acque alte, medie e basse.
- Per “acque alte” si intendevano quei corsi d’acqua, provenienti dai rilievi, che avevano una pendenza sufficiente per defluire verso il mare, ma contribuivano ad alimentare le paludi. Queste acque furono separate mediante il Canale Mussolini, il collettore dei fiumi dei Monti Lepini e dei Colli Albani, che dalla parte settentrionale, taglia trasversalmente la pianura per poi sboccare in mare presso Foce Verde, dopo un percorso di 38 chilometri (con un bacino di 520 kmq).
- Le “acque medie”, invece, consistevano nei corsi d’acqua che non riuscivano a defluire verso il Tirreno, perché ostacolati dalla duna antica con una quota maggiore rispetto alla pianura retrostante. I collettori utilizzati per il drenaggio di queste acque furono gli antichi canali: il Rio Martino che scarica le acque tra il lago di Fogliano e quello dei Monaci; il fiume Sisto, proveniente dal torrente Ninfa, le cui acque defluiscono tra Terracina e il Circeo; la Linea Pia che si dirama dal Ninfa-Sisto e scorre parallela all’Appia fino a Terracina.
- Infine, le “acque basse” erano quelle che causavano più problemi perché scorrevano su terreni posti allo stesso livello del mare o in zone depresse. In questo caso furono necessarie le idrovore capaci, mediante il sollevamento meccanico, di far confluire le acque in canali secondari quasi tutti confluenti nella Linea Pia
(estratto dalla puntata del 2016 di Mario Tozzi)
La bonifica divenne “integrale”, perché in grado di perseguire e raggiungere diversi obiettivi, non solo quello idraulico la cui realizzazione spettava ai Consorzi. Si raggiunse infatti la consapevolezza che la sola costruzione di canali e strade non sarebbe stata sufficiente per l’attuazione del progetto tecnico, ovvero per la realizzazione di una bonifica duratura. Era necessario lavorare la terra in maniera costante affinché la minaccia della palude potesse essere allontanata. Per questo motivo era imprescindibile una presenza stabile dell’uomo, incentivata attraverso la distribuzione della terra bonificata e opere di urbanizzazione.
L’esecuzione del progetto mirava, infatti, anche a un miglioramento delle condizioni sanitarie e per questo venne incaricata prima la Croce Rossa Italiana e successivamente l’Istituto Antimalarico Pontino.
Infine, si mirava a un’intensiva utilizzazione agricola dei terreni, affidati all’Opera Nazionale Combattenti (ONC). L’ONC – una vera e propria struttura statale impegnata nell’opera di trasformazione e affiancata dai Consorzi con un carattere più privatistico e volontario – aveva il compito di favorire l’insediamento dei coloni in centri urbani sparsi e accentrati. La bonifica integrale sarebbe stata una «coordinata attuazione delle opere ed attività rivolte ad adattare la terra e le acque a una più elevata produzione e convivenza rurale» (Serpieri, 1948).
L’ONC era un’associazione che si promuoveva di assistere, moralmente ed economicamente, i veterani della Prima guerra mondiale. Tra le iniziative era prevista anche la distribuzione delle terre ottenute tramite l’esproprio e la bonifica e l’innovazione agro-industriale nel meridione. A seguito delle riforme fasciste l’ente si trasformò in un’impresa agricola e ruralista.
Nel 1931 l’ONC ricevette dallo Stato 18.000 ettari di terre che vennero poi suddivisi in borghi, composti da circa 100 famiglie ad ognuna delle quali fu assegnata un’unità poderale di dimensioni dai 5 ai 30 ettari, costituita da un fabbricato rurale o da una casa colonica193. Questi agglomerati urbani (il cui nome dei borghi si rifà alle località simbolo della Prima guerra mondiale), in totale 14 al termine della bonifica, erano raccordati l’un l’altro da una fitta rete di strade interpoderali (circa 500 chilometri), collegate a loro volta alle strade principali.
Tra il 1932 e il 1939 altri 55.000 ettari circa di terreni ricevuti dall’ONC vennero convertiti in 3.000 poderi anche con l’aiuto delle Università Agrarie di Sermoneta, Bassiano e Cisterna. Grazie alle agevolazioni fiscali, l’ONC riuscì a ottenere quasi la totalità del territorio pontino da bonificare. Alla fine dei lavori vennero assegnati circa 5.000 poderi ad altrettante famiglie, provenienti prevalentemente dal veneto e dall’Emilia.
Il romanzo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi è esemplificativo del sentimento di estraneazione e sradicamento che provavano gli immigrati del nord Italia in Pianura Pontina e del conflitto sociale tra i nuovi arrivati e la popolazione locale.
«Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni – diecimila all’anno – venimmo portatati qua giù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli, dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano storto. E pregavano Dio che ci facesse fuori la malaria. ».
Per ricavare ulteriore terra da coltivare si avviarono intensi disboscamenti, che causarono la distruzione completa della Macchia di Cisterna e di Terracina, ad eccezione di una piccola parte di quest’ultima entrata a far parte del Parco Nazionale del Circeo. La distruzione della continua fascia boschiva provocò problemi a quelle colture esposte a forti venti perché non riparate più dalla folta vegetazione. Per questo motivo nel 1937 si decise di intervenire con un rimboschimento attraverso la piantumazione di oltre un milione di alberi, soprattutto pini e eucalipti.
(escavatore a ponte Marchi 1929)
Profonde modifiche riguardarono anche i laghi costieri, minacciati inizialmente da un progetto di completo interrimento, perché si pensava rappresentassero dei focolai della malaria. Gli acquitrini circostanti furono completamente prosciugati, mentre i lavori sui laghi riguardarono la rettificazione delle sponde, l’apertura di nuovi sbocchi al mare e la sistemazione dei canali di collegamento. Trasformazioni minori hanno interessato il lago di Sabaudia che conserva ancora la ramificata costa che guarda l’entroterra.
Nel piano insediativo promosso dal regime, a un livello gerarchico più alto delle borgate rurali vi era la costruzione di quelle che vennero definite le “città di fondazione”. In soli sette anni i nuovi insediamenti urbani furono: Littoria (poi Latina) nel 1932; Sabaudia nel 1934; Pontinia nel 1935; Aprilia nel 1937; Pomezia nel 1939.
Questo sviluppo senza freni non fu in realtà il risultato di un piano organico, ma venne alimentato dalle fortune propagandistiche del regime che cavalcò l’onda del successo mediatico allontanandosi dall’idea originaria. L’intento di Mussolini era, infatti, quello di fondare centri comunali agricoli al servizio della bonifica e non vere e proprie città; i comuni nascevano per la bonifica e non viceversa. Dal nulla nacque una nuova Provincia con Littoria, ancora in costruzione, nominata nel 1934 capoluogo.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale gran parte della manodopera impiegata nei lavori di manutenzione della bonifica integrale confluì nell’impegno bellico, con gravi ripercussioni sui lavori fin a quel momento svolti. Infatti, senza la manutenzione costante dei terreni, l’ambiente per natura tendeva al costante impaludamento. Per questo motivo il disimpiego di operai e tecnici causò l’allagamento di oltre 18.000 ettari di terreni. Inoltre, la forza distruttrice della guerra colpì duramente sia i nuovi centri urbani di Littoria e Aprilia che quelli più antichi, soprattutto Cisterna.
La Pianura Pontina divenne anche campo di battaglia, in particolar modo nella zona costiera presso Torre Astura, cosicché alcune importanti opere di sistemazione idraulica furono completamente distrutte dai bombardamenti o usate per scopi bellici, come ad esempio i canali tramutati in trincee.
Alla fine della guerra i lavori di recupero furono ingenti e, in alcuni casi, si dovette iniziare quasi dal punto di partenza. Delle opere pubbliche necessarie si fecero carico sempre i Consorzi con l’appoggio della Regione Lazio e la Cassa per il Mezzogiorno.
Volendo tracciare un bilancio conclusivo, la bonifica integrale iniziata dal Genio Civile e portata avanti fino a compimento dal regime fascista, nonostante i limiti progettuali soprattutto nello sviluppo urbano e architettonico delle città di fondazione e i riflessi negativi dal punto di vista ecologico-ambientale, può essere considerata una vera e propria impresa. Un’opera colossale e di successo, non paragonabile a livello quantitativo e qualitativo alle altre bonifiche avviate in Italia dal governo fascista, tant’è che Antonio Pennacchi afferma «Nel giro di sei anni si è passati dalla preistoria alla modernità».
Riforma Agraria
In questo scenario non si può non accennare al tema della Riforma Agraria che ha interessato il nostro paese nell’immediato dopoguerra. Anche se rispetto ad altre zone della penisola la Pianura Pontina ha subito meno gli effetti della Riforma, si ritiene interessante comprendere i risvolti sociali ed economici che questa ha comportato nelle campagne italiane.
Le cause di un incisivo intervento statale rivolto ad uno sviluppo agricolo, necessario per un miglioramento economico generale, è da attribuirsi all’arretratezza delle strutture fondiarie e di conseguenza all’insufficiente sistema produttivo del settore primario. Inoltre, le precarie condizioni di vita dei contadini e la distribuzione ineguale delle proprietà fondiarie erano una delle cause principali di instabilità politica.
Il decollo agricolo degli anni Cinquanta e Sessanta ha posto un freno anche al fenomeno dell’inurbamento e stabilizzato la forza lavoro, incentivando, inoltre, un flusso di capitali nel settore agricolo. Il periodo della Riforma Agraria in Italia venne inaugurato nel 1951 attraverso l’emanazione della Legge Stralcio, un atto riformativo di scala regionale, anticipatorio della legge nazionale sulla Riforma, rivolto a quelle aree gravate da un’ineguale distribuzione della proprietà. Tale provvedimento era considerato risolutivo per lo sviluppo delle campagne italiane, tant’è che i suoi proponenti lo definirono il definitivo “colpo di ariete” in grado di migliorare le forme di accesso, di possesso e di proprietà, nonché le pratiche e le tecniche d’uso delle risorse ambientali .
La stagione della Riforma Agraria ha contribuito a profondi mutamenti sociali. Infatti, l’espropriazione di ampi terreni colpì duramente le classi dei baroni (la cui presenza era ancora consistente in meridione), mentre significò un miglioramento delle condizioni dei braccianti agricoli che diventarono contadini diretti. Questo cambiamento permise, inoltre, la fine dell’arretratezza sociale di queste aree dominate ancora da rapporti feudali. I benefici della Riforma hanno interessato anche la sfera economica attraverso nuove scelte produttive e orientamenti colturali aperti all’esterno e non confinati in ambito locale.
Presente
Oggi il paesaggio pontino è il risultato dell’incisiva e indelebile azione antropica che ha profondamente modificato non solo il tessuto produttivo, ma anche la struttura amministrativa e sociale, segnando una frattura profonda con la Pianura Pontina del passato. La morfologia pianeggiante, la presenza cospicua di canali e di un clima favorevole sono stati fattori determinanti per una radicale trasformazione del paesaggio, passato in breve tempo da Palus ad Ager.
(Piazza del Popolo a Latina, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
Oggi quello che si attraversa è un territorio principalmente artificiale, nel quale le tracce del suo recente passato paludoso sono state quasi ovunque cancellate dalle bonifiche integrali della prima metà del Novecento.
La matrice agricola è preponderante in tutta la pianura, ma dalla seconda metà dello scorso secolo si è sviluppato considerevolmente anche il tessuto urbano, commerciale e industriale, con ripercussioni negative su un territorio da sempre a elevato tasso di naturalità. Gli agglomerati urbani sono cresciuti in maniera considerevole; soprattutto è da registrare l’espansione di Latina e la nascita dei centri in prossimità della costa, completamente antropizzata da Terracina al Circeo.
L’unica testimonianza della vegetazione originaria della pianura è rappresentata dal bosco promiscuo del Parco Nazionale del Circeo, residuo dell’antica macchia di Terracina. Nonostante ciò rimangono ancora degli spazi di notevole importanza naturalistica, soprattutto nelle aree ricadenti nel Parco Nazionale del Circeo, istituito nel 1934 per preservare la memoria del territorio precedente alle bonifiche fasciste.
Il Parco ha un’estensione di 8.874 ettari ed è composto da ambienti diversificati che garantiscono una rilevante biodiversità floristica e faunistica. Per questo motivo, la Pianura Pontina gode di diversi nodi della Rete Natura 2000, rappresentati da Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e Zone di Protezione.
L’importanza naturalistica dei laghi costieri è testimoniata anche dal fatto che i bacini lacustri costituiscono dal 1971 quattro zone Ramsar (Fogliano; Monaci; Caprolace; Sabaudia), ovvero zone umide di notevole valore per la conservazione degli ecosistemi acquatici e, in particolare, degli uccelli migratori. Le zone Ramsar non riguardano solo gli specchi d’acqua, ma anche le aree limitrofe, interessate da periodici impaludamenti e funzionali al mantenimento dell’ecosistema acquatico.
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