Tra gli oggetti che costellano le nostre coste vi sono le colonie marine, patrimonio edilizio e testimonianza di un passato tutto ancora da metabolizzare.
Colonie estive
All’interno della rassegna di letture in compagnia del Tirreno e del tema “Spiagge“, una pagina dedicata alle colonie estive, edifici monumentali lungo le coste italiane, luoghi fragili e memorie di un passato tutto ancora da metabolizzare.
“[…] Il porticato sotto l’edificio non consente solo al disoccupato che passeggia sulla strada litoranea di continuar a vedere sempre il mare, ma fa del respiro del mare e del monte una sola atmosfera. […] È importante che i ragazzi sentano subito, in quel rispetto che l’architetto ha avuto delle forze e delle bellezze della natura, la gioia del respiro libero.” (Raffaello Giolli, 1938)
Fotoracconto
Alcuni scatti delle colonie incontrate pedalando lungo il Tirreno.
Elenco dei percorsi
I percorsi con cui andare alla scoperta delle colonie lungo il mar Tirreno. segue…
Mappa
Nella mappa seguente proponiamo una piccola selezione delle colonie vista Tirreno. Ben vengano segnalazioni. Un elenco più dettagliato è disponibile sul sito lecolonie.com
Indietro nel tempo
Testi estratti da “Dai fasti degli anni ’30 al declino dei ’70 le colonie marine tra cura e vacanze“, Sara Bertuccioli; “Un patrimonio sociale. Cosa rimane delle ex colonie per l’infanzia in Italia“, Sofia Nannini; “La situazione e i cambiamenti in corso nelle aree costiere italiane”, Legambiente; mostra “Colonie per l’infanzia“; “Andare per colonie estive“, Stefano Pivato
Cura dell’infanzia
Malattie polmonari, pellagra, deficienza toracica, gozzo, cretinismo, difetti di statura. Le prime visite di leva del neonato stato unitario restituiscono il ritratto di un’Italia malata. I militari sono preoccupati che i corpi malsani degli italiani non siano in grado di fornire un esercito capace di difendere i confini di una nazione appena uscita dalle guerre risorgimentali. L’italiano va curato per renderlo pronto alla battaglia, sanato per diminuirne le attitudini antisociali, guarito per adattarlo ai ritmi produttivi della nascente industria.
(Colonia marina in Liguria, 1928)
Nel frattempo, la medicina scopre le proprietà curative del mare. Dame nobili e borghesi seguono il dettato dell’igiene positivista che alle abluzioni marine assegna poteri miracolosi (non ultimo quello di curare la sterilità).
Per i bambini malati delle classi povere ci sono gli ospizi marini, precursori delle future colonie. Nel 1856, grazie infatti all’iniziativa del medico fiorentino Giuseppe Barellai, apre a Viareggio, in locali di fortuna, il primo ospizio. Barellai è tra quanti sostengono che la scrofolosi può essere curata grazie alle cure marine. Va dunque considerato l’iniziatore di quella medicina sociale che individua nella profilassi marina la prevenzione e la cura di una delle malattie più gravi che affliggono l’Italia post-risorgimentale.
“Utilissimi negli scrofolosi, nei rachitici, nei giovani esauriti dallo studio o da altri eccessi, nei convalescenti di febbri tifoidee, nelle donne che hanno pochi globetti rossi e in quelle in cui l`astro della notte è avaro o brilla per la sua assenza; nelle nevrosi, nelle veglie nervose, nelle palpitazioni nervose, nelle malattie da abuso di tabacco, nel raffreddore cronico.” (Ruggero Ugolini, medico riminese, 1873).
La medicina positivista, Cesare Lombroso in testa, intraprende una maniacale analisi, e il sanatorio diventa il simbolo di una nuova cultura del corpo.
Tu, mare, disserra
Il grembo materno;
Tu svecchia la terra;
Tu, giovane eterno,
Sommergi, ritempera
Nell’onde lustrali
Le razze mortali.
(G.Zanella, 1889)
Nel corso del Novecento, le colonie acquisiscono altri significati, in particolar modo legati all’educazione delle masse e alla costruzione di un’identità politica nelle giovani generazioni, promossi sia dai regimi totalitari che da governi democratici.
In molti casi, queste costruzioni anticipano l’urbanizzazione di nuove mete turistiche costiere e montane, rese accessibili dalle nuove linee ferroviarie in costruzione.
Indottrinamento e propaganda
Con il XX secolo, la Grande Guerra porta alla luce il problema dell’infanzia abbandonata. Tra soldati al fronte, feriti e caduti, la struttura tradizionale della famiglia ha subito pesanti mutilazioni.
Il fascismo si appropria degli ospizi marini e la colonia estiva diventa una vera e propria “fabbrica della salute”. Il bambino entra sulla scena sociale come mai in precedenza.
A partire dalla metà degli anni Venti, la realtà delle colonie viene direttamente controllata dal Partito Nazionale Fascista: quel momento costituisce lo spartiacque fra il periodo dell’igienismo terapeutico e la scoperta della colonia come spazio dedicato alla formazione dell’ “uomo nuovo” profetizzato dal regime.
(colonia Lodolo a M.C.Carducci, archivio Touring)
Le colonie sono uno strumento prediletto dal regime di Mussolini per la costruzione del consenso e l’educazione paramilitare della gioventù. In pochi anni diventano inoltre un campo straordinario di sperimentazione architettonica e tecnologica, in linea con le finalità formative e militari del regime.
Il personale assunto deve essere di sicura “fede fascista” e aver frequentato i corsi riservati ai Fasci Femminili. Fra il 1926 e il 1928 la gestione delle colonie è demandata all’Opera nazionale per la protezione della maternità e l’infanzia (ONMI), coadiuvata dai Fasci Femminili e dall’Opera Nazionale Balilla (ONB). Nel 1938 passa sotto il controllo della Gioventù Italiana del Littorio (GIL). Nello spazio di un decennio vengono edificate oltre 4000 colonie, concentrate soprattutto sul litorale toscano e romagnolo.
(la mostra del 1937)
Alla funzione curativa si aggiunge quella educativa. La colonia costituisce infatti il prolungamento della formazione scolastica invernale, anzi uno dei luoghi privilegiati nei quali vengono trasmessi ai giovani ospiti i cardini dell’ideologia fascista: dal culto del corpo alla valorizzazione dell’identità nazionale, dalla osservanza della liturgia del littorio ai riti del militarismo.
Regolamenti, manuali e circolari precisano una serie di norme dirette a uniformare i criteri educativi e rendere la colonia un centro di propaganda fascista. Precisazioni sulle diete e sulle norme igieniche, prescrizioni sulle divise e i costumi, obbligatoriamente dello stesso tipo, mirano alla creazione di quello che viene definito “armonico collettivo”.
Si tratta di un patrimonio non unitario, ma frammentato per promotori, località e scopi, che segue l’andamento delle politiche del regime fascista tra gli anni Venti e l’inizio degli anni Quaranta, in costante tensione tra centro e periferia.
Alle tante costruzioni minori progettate a livello locale, sul lungomare o nelle campagne, fanno da contraltare le grandi colonie: “Costanzo Ciano” a Milano Marittima, “Figli italiani all’estero” a Cattolica, “Regina Elena” a Calambrone in Toscana, “Gustavo Fara” a Chiavari.
(Colonia AGIP, Cesenatico)
Stupore e meraviglia
Le colonie devono stupire e lasciare l’impressione di un regime che si prende cura dei bambini. In Italia si assiste a una vera e propria monumentalizzazione del welfare per l’infanzia.
(colonia Gustavo Fara, Chiavari)
Mentre all’estero severe prescrizioni contribuiscono a conferire agli edifici pubblici una impronta uniforme, in Italia una schiera di architetti giovani e semisconosciuti avvia, proprio attraverso le colonie, quella svolta modernista destinata a imprimere una inedita curvatura all’architettura italiana. Al di fuori del tradizionalismo accademico, i fautori del modernismo ritengono che tutta l’architettura della colonia debba colpire l’immaginazione. Forma, dimensioni e altezze degli ambienti sono orientati a stupire l’immaginario infantile.
(colonia “XXVIII ottobre” a Cattolica)
Le colonie diventano il modo di sperimentare il linguaggio architettonico in chiave funzionalista e razionalista. Strutture imponenti, progettate dai migliori architetti del tempo che hanno carta bianca: l’obiettivo è quello di comunicare la modernità, intesa come valore dell’avanguardia e del regime.
Le colonie colpiscono la fantasia anche degli adulti, attraverso la propaganda di giornali e cinegiornali. Oppure sono i racconti dei figli che tornano dai soggiorni. Nell’immaginario degli italiani, le colonie finiscono per porsi accanto a quelle “cose buone” che ha fatto il fascismo, assieme ai treni che arrivano in orario, alla sconfitta della mafia o alla istituzione delle pensioni. Mario Labò, pioniere del razionalismo architettonico, teorizza che i principi dell’ideologia fascista possano essere tramandati in maniera diretta attraverso una scenografia architettonica che richiami il culto del corpo, la valorizzazione dell’identità nazionale, la disciplina e il militarismo.
“Tutto in esse, dalle linee astratte e dai volumi agli svolgimenti delle piante, […] dall’ampiezza e tipo dei serramenti al disegno delle ringhiere, dagli intonaci ai pavimenti, […] tutto concorre a comporre la forma plastica, l’immagine visiva, in cui si immedesimerà per sempre, nella memoria di questi ragazzi, il ricordo del soggiorno in colonia. I più, usciti da tuguri o da modeste case popolari, da ambienti familiari inquieti, sentiranno qui per la prima volta […] gli stimoli a lasciarsi sia pure passivamente penetrare dalla suggestione di un gusto, i primi stimoli all’apprezzamento di una forma architettonica, non veduta solo da fuori, ma adoperata per viverci dentro”. (Mario Labò)
I bambini vengono immersi in un contesto di simboli e di liturgie che evocano, in forme molto elementari, l’eclettismo di una ideologia nella quale i miti del Risorgimento si fondono con quelli degli eroi di guerra, dei protagonisti del regime fascista e di Casa Savoia. E dove, infine, il culto della rinascita è continuamente evocato dalla modernità delle architetture.
Nelle colonie, al gigantismo delle forme si aggiunge spesso un linguaggio più didascalico: statue, motti e fotografie richiamano continuamente ai piccoli ospiti e ai visitatori adulti la figura del duce, le parole d’ordine e le sue massime. Gli edifici propagano le allegorie educative del fascismo.
Fasci littori, navi, aerei rimandano alla modernità e alla potenza del regime. Le planimetrie degli edifici ne riproducono spesso il linguaggio simbolico, disegnando la “M” di Mussolini. La venerazione nei suoi confronti si manifesta anche attraverso l’onomastica. Ben tre colonie sono a lui intitolate. Per quella sorta di aura messianica che circonda la figura del capo, il fatto che Mussolini si bagni nell’Adriatico riempie d’orgoglio quelle famiglie che mandano i loro figli nelle colonie fra Ravenna e Cattolica, facendo scattare un meccanismo di identificazione.
Una serie di stereotipi elevano Mussolini a “grande babbo spirituale dei fanciulli” e “padre vigile e premuroso della salute fisica e morale dei suoi figli”, come ripete ossessivamente la propaganda. Tanto più che nei 90 chilometri della costa romagnola si concentra una densità di colonie altrove non rilevabile.
(colonia Varese, Milano marittima)
Nella denominazione degli edifici vengono coinvolti anche i familiari: la madre Rosa Maltoni Mussolini, il padre Alessandro Mussolini, il nipote Sandro Mussolini. Varie le dedicazioni a Roberto Farinacci, Costanzo Ciano e ad altri rappresentati del regime.
Navi, torri, aerei, littorine
Navi, torri, locomotive, aerei: gli edifici acquisiscono una monumentalità di forme e di dimensioni in grado di stupire e di lasciare l’impressione che il regime si prende cura dell’infanzia in maniera non banale.
Il tema forse più ricorrente è la Nave, rappresentante l’inizio di una nuova era, intrisa di macchinismo. Il bastimento evoca il viaggio verso nuove frontiere. Emblematica la colonia “le Navi” di Cattolica, dove le finestre a oblò, le scale semicircolari, le ringhiere e le passerelle devono dare continuamente ai piccoli coloni la sensazione di trovarsi a bordo di uno scafo in procinto di salpare. Magari verso la guerra.
I dormitori ricordano littorine, aerei, siluri. In ogni caso tutte le forme evocate richiamano all’immaginario l’estetica della macchina, della velocità e della guerra, tanto prossima alla sensibilità del futurismo. Al di là delle dispute ancora in atto sullo stile architettonico che caratterizza l’imponente costruzione (futurista? razionalista? metafisica? purista?) è fuor di dubbio che ci troviamo di fronte a uno dei monumenti più eccentrici del Novecento.
(colonia 28 ottobre, Cattolica)
La struttura ospita i figli degli italiani all’estero che, probabilmente, in quella occasione vedono l’Italia per la prima volta. L’effetto deve suscitare in loro l’impressione di una nazione grandiosa e potente. L’edificio deve trasmettere l’idea della grandezza dell’Italia nel mondo.
Il fabbricato principale è dotato di una torretta di comando e rifinito in punta come la chiglia di una nave. Al timone di quel bastimento campeggiava una grande statua del duce nocchiero.
Un altro elemento caratterizzante è la Torre. Oltre a evocare la dimensione fiabesca, ad essa è demandata la funzione di trasmettere i segni dell’autorità. Nel caso della “Torre Balilla” a Marina di Massa il riferimento è duplice: la FIAT e il regime fascista. Il simbolismo della colonia aggiorna il paternalismo aziendale di fine Ottocento. Inaugurata nel 1933, rappresenta una delle più spettacolari costruzioni dell’intero sistema degli edifici coloniali.
(Torre Balilla, pedalando a Marina di Massa)
Definita “il grattacielo dei bambini”, la torre diventa laboratorio di sperimentazione del modernismo architettonico italiano. La caratteristica costruttiva principale è la torre cilindrica, all’interno della quale si sviluppa un’unica camerata lunga 426 metri. Il particolare profilo elicoidale del dormitorio, senza soluzione di continuità, conferisce al pavimento un andamento costantemente inclinato: in ogni lettino varia la lunghezza dei piedi per correggere l’andamento pendente.
La torre si sviluppa su 17 piani: nei primi due sono alloggiati i servizi della colonia (dalle cucine ai magazzini, dal refettorio alle dispense), nei restanti si sviluppa la camerata. I filmati Luce sottolineano come dall’interno sia come stare nell’anima di un enorme “cannocchiale” puntato verso il sole.
Navi, torri… e aeroplani, come a Montesilvano, dove nel 1939 viene inaugurata la colonia marina “Stella Maris”. I dormitori sono collocati nelle ali, il refettorio costituisce il motore, mentre l’infermeria e i servizi formano la coda. L’appartamento del comandante è posizionato nel torrino.
(Colonia Stella Maris a Montesilvano)
Velocità
Materiali innovativi quali ferro, vetro e soprattutto cemento armato consentono di coprire vaste superfici in tempi rapidi, un risparmio notevole nei tempi di esecuzione delle opere. Il calcestruzzo rivoluziona i metodi costruttivi, permettendo la realizzazione di edifici giganteschi senza le tradizionali limitazioni degli elementi strutturali. Se il marmo deve garantire la continuità con l’età romana, il calcestruzzo, grazie alla sua duttilità e celerità d’impiego, diviene la rappresentazione di un’altra delle metafore fondanti del fascismo: la velocità, e con essa il mito dell’efficienza. Anche l’essenzialità del linguaggio dell’architettura razionalista – che abbandona gli elementi decorativi delle costruzioni d’inizio Novecento – concorre a ridurre i tempi di costruzione.
(Colonia Novarese di Rimini, anni’30)
Alla costruzione di quegli edifici si possono alternare tre turni di operai a ciclo continuo, senza alcuna interruzione. La “Torre Balilla” di Marina di Massa viene terminata in 100 giorni. Appena 120 giorni per costruire la “Novarese”, futuribile edificio a forma di nave capace di ospitare 1.000 bambini. In soli nove mesi viene realizzata la colonia “Le Navi” di Cattolica.
Vita in colonia
“Ti mando in colonia!”. Fino a poco tempo fa era la minaccia più ricorrente paventata dai genitori. Quell’avvertimento non conteneva nulla di benevolo, ma suonava come una punizione ed evocava scenari spesso spettrali.
La rigida disciplina, i tempi strettamente contingentati, il cibo spesso scadente affollano l’immaginario infantile di fronte all’evocazione di quella minaccia, la cui origine si deve con tutta probabilità ai racconti di quei milioni di bambini che nel Novecento hanno trascorso almeno un’estate in colonia.
Bambini che salutano festanti al momento della partenza, bambine che sventolano i fazzoletti davanti alle cineprese dell’Istituto Luce o, dagli anni Cinquanta, della Settimana INCOM: ma era davvero un momento così festoso quello della partenza e, soprattutto, lo sarebbe stato il soggiorno che stava per iniziare?
Il fascismo pone molta attenzione alla crescita demografica, alla cura e al rafforzamento della razza italiana come elementi chiave per la grandezza dell’Italia e per lo sviluppo delle sue politiche di potenza. Per questo il regime fa dell’assistenza un perno della propria azione: l’Opera nazionale del dopolavoro, l’Opera nazionale maternità e infanzia così come l’Opera nazionale Balilla sono solo alcuni esempi delle strutture create dal regime con questo fine.
(dalla mostra “Colonie per l’infanzia“)
Tali organizzazioni hanno non da ultimo lo scopo di generare consenso e di legare gli italiani al fascismo e al suo capo. Le giovani generazioni sono oggetto di una campagna di propaganda particolarmente intensa. È attraverso la loro educazione in senso fascista che si vuole formare l’uomo nuovo, credente fedele nel regime, pronto a dare la vita per il duce e per la sua ideologia e la donna fascista moglie e madre dei soldati di Mussolini. Le colonie estive sono uno degli strumenti utilizzati dal regime per l’inquadramento dei bambini e degli adolescenti. segue…
Per molti bambini si tratta del primo allontanamento, seppur temporaneo, dalla famiglia. L’attesa è piena di mistero e di magia. Per tutti si tratta di una inedita esperienza di vita comunitaria.
I bambini, dai 6 ai 12 anni, in prevalenza da famiglie povere, attraverso la forma e la grandezza dei complessi architettonici, sperimentano un rapporto spaziale inconsueto, contrapposto agli spazi domestici angusti, privi di agi e comodità, da cui spesso provengono.
Per un mese all’anno toccano con mano magnificenza e generosità del regime. Le emozioni vissute in colonia sono spesso destinate a produrre, sul piano psicologico, visioni indimenticabili.
Mai in precedenza, come durante gli anni Venti e Trenta, una massa così ingente di bambini lascia la casa natia per trascorrere la “vacanza”. Il fenomeno finisce per generare, nell’immaginario comune degli italiani, l’idea di contare come i ricchi. O, quantomeno, di partecipare a svaghi un tempo riservati alle classi abbienti. Questa percezione è ben presente anche nei piccoli ospiti che appena giunti a destinazione esprimono meraviglia e stupore di fronte al gigantismo delle colonie. Una percezione amplificata dall’isolamento delle strutture, costruite in grandi aree verdi. Edifici come “Le Navi” di Cattolica, la “Torre Balilla” di Marina di Massa, la futuristica “Villa Rosa Maltoni Mussolini”, diventano la scenografia di controllate forme di fruizione popolare.
La vita in colonia è uniformata agli stessi ritmi e indirizzi. Le stesse divise, gli stessi canti, le stesse liturgie giornaliere, dirette a forgiare una mentalità collettiva uniforme. I maschi, vestiti da Balilla, e le femmine, da Giovani Italiane, partono a migliaia ogni anno dai paesi e dalle città di origine, verso il mare o la montagna.
Dall’esperienza della vita di colonia devono uscire bambini rinnovati nel corpo e, soprattutto, nello spirito. Non a caso, appena giunto a destinazione, il bambino viene lavato e vestito con una divisa all’interno di un locale denominato “accettazione e bonifica”.
Rigida e scandita da precisi orari è la vita sociale, che inizia alle 7 con il rito dell’alzabandiera. Quando la bandiera sventola – riporta una cronaca della stampa nel 1939 – risuona il comando “saluto al duce” e i piccoli gridano “A noi!”. In certe occasioni l’alzabandiera è preceduto dalla celebrazione della messa, allo scopo di glorificare Dio e Patria, come sottolineano i manuali per le vigilatrici.
(manuale vigilatrici, 1939)
II canto, secondo le migliori tradizioni educative, serve a cementare lo spirito di gruppo, a favorire l’assimilazione etica e il sentimento patriottico. Per questo occupa un posto di primo piano nelle attività della colonia. Ogni momento della giornata è scandito da un inno, a cominciare da “Giovinezza” che, assieme alla marcia reale, accompagna il rito mattutino dell’alza bandiera. Dopo la prima colazione, gran parte della mattinata trascorre sulla spiaggia o in lunghe passeggiate nelle colonie montane.
Nelle belle giornate è previsto il bagno. Unanime è il giudizio negativo su questo momento che si svolge per pochi minuti, sotto il vigile sguardo delle assistenti. Bambini e bambine degli anni Sessanta ricordano oggi: “bagni di pochi minuti solo alla mattina”, “il bagno in un metro quadrato di mare”. Il senso di libertà che provoca il gioco fra le onde è frustrato non solo dallo scarso tempo passato in acqua, ma anche dalla rigida disciplina che lo regola. Le assistenti si mettono in circonferenza nel tratto di mare basso poi, un fischio potente e via.
“partiva allora, all’unisono, un urlo liberatorio di tutti i bambini e la nostra corsa forsennata, infine liberi, verso le onde che ci attiravano irresistibilmente. Mi ricordo che guardavamo con invidia i bambini che erano andati al mare con le loro mamme perché, contrariamente a noi, potevano fare tutto quello che volevano, specialmente in acqua.”
Dopo il bagno, l’esposizione al sole: di pancia, di schiena o sui fianchi, a seconda del comando delle vigilatrici. Dopo il pranzo e il riposo, le attività pomeridiane riprendono con la distribuzione della merenda.
È ai pasti, regolarmente somministrati quattro volte al giorno, a fanciulli – spesso sottoalimentati – che i dietisti attribuiscono i risultati considerati “ottimi” per “aumento di peso, statura, circonferenza toracica”.
Il pomeriggio prosegue con marce sulla spiaggia, giochi di squadra e ginnastica. Buona parte di questa è dedicata all’istruzione premilitare. I vari regolamenti emanati dalla GIL divengono via via più uniformati a una educazione patriottica, secondo severe regole che prevedono schieramenti, marce, adunate.
(Colonia Pierazzi, pedalando a Follonica, 1931)
Per queste occasioni, il tradizionale pagliaccetto, che costituisce una sorta di uniforme, viene sostituito dalle divise da Balilla, per i bambini, e da Giovani Italiane per le bambine. Per queste ultime sono previsti corsi di cucito e di economia domestica.
Non infrequenti i momenti di intrattenimento sottolineati dall’intonazione degli inni di regime o dalle lezioni sul fascismo, nel corso delle quali vengono generalmente ricordati caduti, martiri della rivoluzione o camerati immolatosi per la conquista dell’impero.
La cena viene consumata fra le 19 e le 19:30. Il riposo notturno inizia alle 21.
Turismo popolare
La costruzione della Torre Balilla è destinata a mutare la percezione del soggiorno estivo dei fanciulli: la colonia non appartiene più, perlomeno nell’immaginario, alla tipologia degli alloggi di carattere popolare, ma eguaglia il modello della vacanza dei ricchi.
(Torre Balilla a Massa Marittima)
Tanto più che l’edificio di Marina di Massa imita le torri del Sestriere, che nel 1932 e nel 1933 ospitano l’Hotel Torre e l’Hotel Duchi d’Aosta, strutture che lanciano la località piemontese come una delle prime stazioni sciistiche italiane, in un periodo in cui la pratica dello sport sulla neve è ancora fortemente elitaria. I figli degli operai della prima industria automobilistica italiana, coloni della “Torre Balilla”, possono immaginare di trascorrere le vacanze in un luogo del tutto simile a quello che al Sestriere ospita i passatempi sulla neve dei ricchi torinesi.
(Sestriere, 1978)
Anche l’abbigliamento sembra sottolineare questo accorciamento di distanza sociale. Uguale per tutti i piccoli ospiti e distribuito gratuitamente. Pantaloncini corti, pigiama, scarpe da ginnastica golfini e cappellini consentono ai piccoli coloni di possedere un inedito guardaroba e di vestirsi in modi mai sperimentati in precedenza.
La Torre di Marina di Massa diventa l’emblema di quella democratizzazione del tempo libero che il regime esperisce in coincidenza con l’aggravarsi della recessione economica. Tempo libero, svago e ricreazione configurano non solo un nuovo modello sociale dell’italiano medio, ma stanno anche a dimostrare la giusta ricompensa di un regime paterno che a tutto provvede. E quindi anche a ridurre la distanza che separa i poveri dai ricchi, almeno nell’immaginario della vacanza.
Ma la realtà è un’altra. Negli anni fra le due guerre, i piani regolatori stabiliscono la costruzione delle colonie in zone isolate, preannunciando, già agli albori del Novecento, la distanza fra il turismo elitario del litorale toscano (e ligure) e quello delle spiagge popolari dell’Adriatico.
A Rimini e Viareggio, nobili e borghesi si godono la vacanza negli alberghi e nei villini delle zone centrali. I poveri finiscono nelle colonie in zone periferiche, per non disturbare il nascente turismo balneare e danneggiare il valore dei terreni coinvolti nelle future speculazioni.
Censura e confinamento
La scrittura settimanale è un obbligo: per rassicurare le famiglie e per manifestare ai genitori l’idea di un soggiorno all’insegna della salute fisica e mentale. I filmati Luce rammentano che i bambini dedicano spesso momenti della loro giornata per comunicare ai genitori che “stiamo tanto bene”.
Tuttavia, la realtà sembra fosse assai diversa. Le vigilatrici sono infatti molto attente a non far trasparire dalle cartoline stati d’ansia e nostalgia.
I regolamenti prevedono la censura nella posta in arrivo e in partenza. Se una bambina scrive la parola “nostalgia”, viene immediatamente censurata. Se qualcuna cerca di far arrivare una lettera tramite qualche passante, viene minacciata di prolungare il soggiorno di un ulteriore mese.
Rari e sempre sotto il controllo delle vigilatrici sono i contatti dei bambini con il mondo esterno. Solitamente confinate in zone periferiche, le colonie chiudono spesse anche il tratto di spiaggia antistante, per impedire il contatto con gli estranei. Da adulti, molti rammentano che le passeggiate pomeridiane dalle periferie delle colonie verso i centri abitati generavano “la sensazione di un mondo che era al di fuori del nostro esistere, perché noi eravamo come stranieri in una terra di nessuno.”
Colonie tirreniche
La Liguria ospita uno dei monumenti più significativi e spettacolari di tutto il territorio nazionale: la Torre intitolata al generale Gustavo Fara, protagonista del primo colonialismo italiano in Eritrea.
L’edificio si distingue immediatamente per la Torre “aerodinamica e futurista”, secondo la definizione delle riviste di architettura del tempo e richiama, per alcuni aspetti, l’architettura dei fari di illuminazione marittima. La camerata, analogamente alla Torre Balilla di Marina di Massa, è concepita come un unico alloggio che si sviluppa in forma di rampa e si snoda per un’altezza di 9 piani.
Dopo il litorale adriatico fra le province di Ravenna e Forlì, la costa tra le province toscane di Lucca e Massa Carrara è quella a più alta densità di colonie: un totale di cinquantuno, ventuno delle quali costruite fra il 1924 e il 1940.
È a Marina di Massa che si concentra il maggior numero di colonie di ampie dimensioni. A cominciare dalla “XXVIII ottobre, dei fasci di combattimento di Torino”. La colonia, inaugurata nel 1938, è considerata una bella espressione dell’architettura razionalista. La sua forma deve restituire al visitatore l’idea di una fabbrica dove, metaforicamente, si forgiano le generazioni del futuro.
Un discorso a parte meritano le colonie edificate a Calambrone. Nessuno dei siti che fra gli anni Venti e Trenta vengono individuati per la costruzione delle colonie è così carico di significati come questo, situato nel comune di Pisa, alla foce dell’omonimo fiume, immediatamente a sud della Versilia.
(Colonia Maltoni, pedalando da Pisa a Livorno, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
All’inizio del Novecento la località è una vasta area paludosa e disabitata che si estende per oltre 80 chilometri quadrati, con un fronte mare di 3 chilometri. Inserito all’interno della riserva reale del Tombolo nel parco di San Rossore, a partire dal 1925 il territorio inizia a essere oggetto di un vasto intervento di bonifica.
La bonifica delle terre paludose inizia in Italia alla fine dell’Ottocento, ma il fascismo non tarda ad appropriarsi di quella vasta operazione di infrastrutturazione agraria, rivestendola, oltre di un ruolo sanitario e terapeutico, del compito di formare spiritualmente “l’uomo nuovo” del fascismo. Il recupero della terra paludosa si salda infatti al mito del rinnovamento di una intera generazione di fanciulli.
Durante l’opera di trasformazione si concretizza anche il progetto di una città elioterapica, sollecitato dall’ospedale di Livorno con l’appoggio di Costanzo Ciano, potente ras della città labronica e ministro del governo Mussolini.
Il progetto del Calambrone rientra dunque in una più vasta operazione urbanistica del regime che prevede la costruzione di nuove città in zone precedentemente poco o nulla abitate, come Littoria, Pontinia o Sabaudia nell’Agro Pontino, che avrebbero dovuto essere i centri propulsivi di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale.
La città di fondazione destinata alle colonie sorge alla periferia sud di Tirrenia, come appendice di un centro abitato modello. Progettato da alcuni dei migliori architetti italiani dell’epoca, strade, piazze e costruzioni vengono disegnate secondo una tipica impronta razionalista.
La mitologia della rinascita propagandata dal regime, qui non è legata solo alla bonifica o alle futuristiche linee architettoniche degli edifici, ma a una serie di miti del passato che concorrono a forgiare “il fanciullo nuovo”. Il 19 marzo 1931, giusto un anno prima della inaugurazione della prima colonia, il tenente colonnello Giuseppe Damonte – eroe dell’aria e trasvolatore atlantico – cade nel tratto di mare proprio di fronte a Calambrone a causa dell’esplosione in volo del Savoia-Marchetti S64, durante un volo di esercitazione.
(colonia Principi di Piemonte, pedalando da Pisa a Livorno, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
In questa prospettiva si inserisce la colonia “Principe di Piemonte”, a cominciare dalla planimetria che, percepibile dall’alto, rappresenta un aeroplano con la prua rivolta verso il mare e la fusoliera a fungere da collegamento con la coda che ospita le cucine e il refettorio.
Con la “Regina Elena”, il monumentalismo simbolico fa il suo ingresso nelle strutture balneari per l’infanzia. Progettata dall’architetto Ghino Venturi, ricalca le linee dell’urbanista Marcello Piacentini, massimo ideologo del monumentalismo fascista e suggeritore di una immagine del regime che riecheggia i fasti dell’età romana. Il complesso, immerso nella pineta del Tombolo, consta di tre edifici principali collegati fra di loro da porticati e gallerie vetrate.
I tre corpi dell’imponente struttura formano, visti dall’alto, un fascio littorio, a imitazione della colonia “Roma” di Bellaria Igea Marina che, nella fusione fra la parte centrale dell’edificio e le ali laterali, descrive una enorme “M” in onore di Mussolini.
Le colonie si diradano mano a mano che si prosegue verso sud. Calambrone sul Tirreno e Cattolica sull’Adriatico sembrano tracciare un’ideale linea al di sotto della quale gli edifici di questo tipo perdono rilievo nel paesaggio marino.
Tirrenia studios
Nel 1933, nella nuova località costiera di Tirrenia si aprono i Tirrenia Film Studios. Poco a nord di Calambrone, non si connota solo come una delle città ideali del fascismo in quanto culla – grazie alle colonie – della generazione di italiani nuovi, ma anche per essere la località che ospita “l’arma più forte” della propaganda: il cinema. Segue…
Architetti ebrei
Sull’imponente struttura della colonia Montecatini a Cervia svetta una torre alta 53 metri, alla quale è assegnato il compito di allenare i giovani coloni all’esercizio fisico ma, al tempo stesso, di indicare loro simbolicamente l’aspirazione alle vette. Durante la guerra, la torre viene abbattuta dai bombardamenti alleati. Sarà ricostruita con un’altezza minore nel dopoguerra.
All’inaugurazione della colonia nel 1939, alla presenza delle autorità fasciste, non è presente il progettista. Eugenio Faludi, in quanto ebreo, è costretto a lasciare l’Italia in seguito alla emanazione delle leggi razziali.
Bombardamenti
Nell’ estate del 1944, quasi tutti gli edifici che avevano ospitato i bambini vengono demoliti dai tedeschi perché ostruiscono la visuale e la linea di tiro delle artiglierie. Forte dei Marmi è la località che patisce il maggior numero di distruzioni di colonie.
Gli abbattimenti da parte dell’esercito tedesco anticipano quelli che saranno operati, per insipienza e volontà di speculazione, negli anni del boom economico. Emblematica la sorte delle “Navi” di Cattolica: alla fine degli anni Sessanta, parte degli edifici vengono demoliti per fare spazio alle strutture ricettive dell’industria turistica.
Laddove le colonie sono state sostituite da complessi alberghieri e residenziali, senza alcun rispetto per l’ambiente, la cementificazione ha irrimediabilmente compromesso il paesaggio. In quelle aree dove le colonie sono invece state lasciate cadere in rovina, l’incuria dell’uomo ha funzionato da tutrice nei confronti di una flora che è tornata a prosperare attorno alle macerie, a contenimento della speculazione edilizia selvaggia altrove dialgante.
Riconversione
La guerra e i bombardamenti lasciano il segno anche sulla realtà delle colonie. Molte quelle distrutte o danneggiate, in numero ancora maggiore quelle trasformate in luoghi di prigionia dell’esercito tedesco sconfitto. Trasformate in ospedali militari, campi per i profughi o rifugio per sfollati, custodiscono la memoria di tragedie, fughe obbligate e costrizioni nell’arco di oltre un secolo.
Drammatica la pagina che riguarda figli e figlie dei coloni italiani in Libia. Circa 13.000 bambini italiani che nell’imminenza della guerra vengono trasferiti in Italia (vedere capitolo più avanti) e ospitati presso le colonie. Sorpresi dallo scoppio del conflitto, i bambini sono impossibilitati a tornare presso le famiglie. Per quei piccoli inizia un’odissea. Spostati continuamente, con l’avanzare del fronte, nelle varie colonie della penisola, potranno ricongiungersi – e non sempre – con le loro famiglie solo nel dopoguerra.
La colonia “Fara” di Chiavari, nel 1940 viene adibita dall’esercito tedesco a ospedale militare e nel 1945 ospita le truppe alleate. Alla fine degli anni Quaranta, nella struttura trovano ricovero i profughi provenienti dall’Istria. Infine, nel 1951, si trasforma in un enorme alloggio dove vivono in promiscuità intere famiglie della provincia di Rovigo fuggite dall’alluvione del Po, a cui si aggiungono almeno 10.000 bambini accolti nelle colonie della costa adriatica. Oggi è un albergo di lusso.
Dopoguerra cattolico
Nell’ Italia ridotta in ginocchio dalla guerra, l’assistenza all’infanzia passa nelle mani dell’associazionismo. L’Unione donne italiane promuove, a partire già dal 1945, i “treni della felicità”: una imponente rete di solidarietà che per alcuni anni trasferisce migliaia di bambini indigenti del Sud presso le famiglie del Nord.
La concorrenza del mondo cattolico marginalizza le esperienze dell’educazione laica. È la Pontificia commissione d’assistenza, creata nel 1944, ad assumere l’eredità delle colonie.
La pedagogia cattolica sostituisce l’ideologia fascista nell’educazione dei fanciulli, rivedendo anche il linguaggio architettonico. Gigantismo e fasto diventano macchie da nascondere, le colonie si trasformano in tempi pagani da spingere nell’oblio.
I nuovi criteri sono economicità, risparmio, essenzialità, frugalità. La differenza di stile ha fatto crescere nell’immaginario degli italiani la convinzione che il periodo di massima fioritura delle colonie sia stato prodotto durante il fascismo. In realtà, la loro espansione numerica si intensifica proprio ora. In linea con il nuovo disegno pedagogico, a marcare le differenze fra l’architettura del Ventennio e quella del dopoguerra non sono solo le dimensioni esterne degli edifici, ma anche quelle dei locali interni, in primis refettori e dormitori.
Le nuove colonie anticipano quella povertà formale che caratterizza l’architettura ricettiva delle prime strutture del turismo di massa. Le strutture sono più contenute e il linguaggio architettonico è privo di qualsiasi sperimentazione formale. La speculazione edilizia degli anni che precedono e seguono il boom economico, finisce per coinvolgere anche gli edifici che ospitano le colonie: massimo risparmio in termini di materiali, tecnologie e rifiniture, scarso impegno creativo dei progettisti.
Si assiste ad una ulteriore frammentazione dell’edilizia destinata ad attività assistenziali estive. Non più coordinate da una unica regia, le colonie tornano in mano ad una pluralità di attori che si fanno promotori di una densa attività edilizia.
La costruzione di nuove colonie è inarrestabile. Gestite da enti pubblici e privati, laici e religiosi, queste strutture fanno parte di una bonifica di tutto il litorale, con lotti svenduti a poche lire. Senza le pretese architettoniche del trentennio precedente, le nuove colonie assomigliano più ad alberghi ‘alla buona’.
Tramonta il grande sperimentalismo tecnologico e figurativo promosso dal fascismo, lasciando il posto ad una tipologia architettonica più sobria e anonima, che oggi si confonde nel tessuto urbano costruito.
La voce del mare (Gianni Rodari)
La voce del mare nella conchiglia
ascolta il bambino e si meraviglia.
“Pronto? Ti aspetto” il mare dice,
“ho navi e isole per farti felice”.
Vorrebbe rispondere il bimbo al mare:
“Prepara i pesci, verrò a pescare”.
Ma non è certo di parlar bene
la lingua dei pesci e delle sirene.
La nuova colonia bandisce la disciplina militare e rovescia consolidati stereotipi dell’educazione del regime, come adunate, manifestazioni di massa, saggi ginnici. Le lezioni di mistica fascista vengono sostituite con spettacoli per burattini o altri ingenui passatempi. Scompaiono anche gli inni. L’alzabandiera è sostituito dalla preghiera mattutina. Al padre militare si sostituisce la madre spirituale.
Lontano dalle “sconcezze” della vacanza marina è invece il soggiorno in montagna, una sorta di rifugio incontaminato ed estremo che ben si concilia con le qualità ideali del militante cattolico, lontano dal rumore e dalla tentazione della civiltà industriale e della cultura balneare, le cui nudità sono destinate a generare polemiche fino agli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Damnatio memoriae e speculazione
Nell’immediato dopoguerra prende via una vasta azione volta a cancellare ogni riferimento al passato regime. Le colonie subiscono la stessa “bonifica” alla quale sono sottoposti in tutto il territorio nazionale le vie, le piazze, gli enti e numerose istituzioni.
Gli anni del regime fascista in Italia lasciano dietro di sé un consistente patrimonio architettonico e monumentale, che ancora caratterizza lo spazio pubblico di molte città italiane, nei tessuti urbani costieri, montani e rurali: centinaia di ex-colonie costellano la penisola italiana e sono in attesa di progetti di riqualificazione e riuso.
Ignorata per decenni, per necessità o imbarazzo, solo di recente questa eredità viene interpretata da numerosi studiosi sotto una nuova luce, attraverso la definizione di “difficult heritage”, coniata dalla studiosa Sharon Macdonald per analizzare il patrimonio del regime nazista e adottata anche in Italia per discutere dell’eredità architettonica associata al fascismo.
L’immaginario politico e militare continua a riverberare dalle architetture monumentali. I simboli espliciti del regime (iscrizioni, fasci littori, …) sono scomparsi nell’utilizzo continuativo nel dopoguerra, ma la loro finalità originaria rimane impressa nelle geometrie.
Spesso la matrice bellica di queste strutture è svelata dalla disposizione planimetrica, che talvolta allude in modo evidente ad un immaginario militare. Un esempio celebre è l’ex “Colonia per figli d’italiani all’estero” (XXVIII Ottobre) presso Cattolica. Inaugurata nel 1934, la struttura si compone di quattro dormitori posizionati simmetricamente rispetto al padiglione centrale, richiamando l’immagine di navi corazzate pronte per salpare verso l’Adriatico.
Negli ultimi anni, le tante ex colonie sono oggetto di fascinazione fotografica, complice l’attrazione esercitata dalle architetture abbandonate, dalle dimensioni imponenti, quasi sempre collocate in posizioni paesaggistiche strategiche.
Al rinnovamento pedagogico e architettonico delle strutture per l’accoglienza estiva dei fanciulli si accompagna l’opera di cancellazione della memoria del passato regime coinvolge anche le facciate degli edifici associati al ventennio, dalle quali scompaiono elementi architettonici e iscrizioni del fascismo: le gigantesche “M”, i fasci littori, i cippi e le lapidi.
La possibilità di essere abitata è, apparentemente, una delle caratteristiche fondamentali dell’architettura. Tre delle riviste d’architettura italiane più diffuse e autorevoli si riferiscono, nella loro intestazione, all’abitare: Casabella, Domus, Abitare. Eppure, vi è una singolare assenza nella maggior parte delle foto che esse pubblicano: anche se si tratta di illustrare edifici residenziali, il fotografo pare sempre rifuggire la presenza umana, come se questa contaminasse la purezza dello spazio rappresentato o ne intaccasse la forza evocativa. Dove sono finiti gli abitanti di quegli spazi? Questa assenza è forse indizio di una frattura tra architettura e uomo, di una crisi nel rapporto tra costruire e abitare? E cosa possono dirci le immagini, siano esse fotografiche o in movimento, al proposito? (dalla mostra “Architetture inabitabili“)
Le grandi dimensioni del patrimonio ereditato dal ventennio fascista contribuiscono all’abbandono di queste strutture. Alcune scene del film Zeder, diretto da Pupi Avati nel 1983, mostrano come la colonia Varese di Milano Marittima, con le sue grandi rampe in cemento armato, sia già abbandonata all’inizio degli anni Ottanta. Stessa fine per tante ex colonie nella Penisola, come ad esempio la “Vittorio Emanuele III” a Ostia Lido.
In molti casi, è proprio la grande modernità della tecnologia costruttiva originaria ad accelerare il processo di degrado. Strutture generalmente in cemento armato, talvolta costruite sperimentando materiali autarchici in cantiere, a cui si sono aggiunti ulteriori strati materiali nei decenni del dopoguerra.
Ciò che rimane adesso sono città deserte: dove una volta il silenzio era associato ai riposini pomeridiani e spezzato dalla vivacità dei piccoli ospiti, ora è tutto un mutismo irreale sottolineato dagli ingressi murati delle strutture.
(colonia P.di Piemonte a S.Severa, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
La FIAT, una delle prime aziende italiane a entrare nel campo dell’assistenza all’infanzia, sarà l’azienda che , nel secondo dopoguerra contribuirà involontariamente a far declinare il mondo delle colonie. Nel 1955, esce infatti dagli stabilimenti di Mirafiori la Seicento, l’automobile con cui l’Italia conoscerà la motorizzazione di massa. (leggi l’Italia del Sorpasso)
Il posto fisso e le ferie pagate, fanno emergere un inedito modello di fruizione del tempo libero, al quale accedono anche i ceti popolari. Una vera e propria novità in un paese fino ad allora basato sulla precarietà salariale dell’agricoltura. Le ferie al mare o in montagna riuniscono la famiglia, marginalizzando progressivamente il soggiorno estivo in colonia.
L’attrattività del mare determina, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’inizio del turismo di massa. La costa diventa uno dei principali motori dell’economia turistica. La speculazione edilizia degli anni successivi porta alla costruzione di alberghi, stabilimenti balneari ed edifici residenziali, con massimo risparmio in termini di materiali, tecnologie, rifiniture e creatività.
(Forte dei Marmi nel 1964, pedalando da Massa a Pisa)
Le colonie diventano preda ambita di una speculazione edilizia senza precedenti. Laddove sorgeva una colonia immersa in pinete e spazi verdi, vengono eretti condomini circondati da minuscoli giardinetti che diventano la rappresentazione plastica di quel “sacco delle colonie” che inizia a partire dagli anni Sessanta.
Le colonie costruite nel dopoguerra, architettonicamente povere e di dimensioni modeste, diventano pensioni familiari. Gli edifici del regime, invece, ben si adattano alla trasformazione in alberghi di lusso. Nel 2006, la “Veronese” di Cesenatico viene convertita in albergo a quattro stelle. Stessa sorte per la “Dalmine” di Riccione e La “Fara” di Chiavari. Il complesso di Calambrone è trasformato in un villaggio alberghiero. “Le Navi” di Cattolica, vero e proprio gioiello futuristico degli anni Trenta, è convertita in un gigantesco acquario, entrato nel circuito di una delle più grandi compagnie crocieristiche che vi riversa migliaia di turisti ogni anno.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, l’esperienza delle colonie per l’infanzia declina in tutta Europa, Italia compresa. Le cause sono da cercare nell’aumento del reddito delle famiglie a seguito del boom economico. Le famiglie iniziano a scegliere autonomamente dove passare le vacanze.
La progressiva individualizzazione del tempo libero e di vacanza ha minato alla base il concetto della colonia, il cui fenomeno si è di fatto estinto nel giro di pochi decenni. Nell’immaginario collettivo la colonia si trasforma in una punizione, da paventare come minaccia nei confronti dei bambini capricciosi. Il crollo demografico e i tagli dei comuni alla spesa sociale fanno il resto.
(colonia IX maggio a Sarzana, Fabio Gubellini)
La storia si esaurisce definitivamente tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. il Sessantotto mette in crisi il modello educativo e sociale delle scuole di ogni ordine e grado, giungendo a stravolgere anche il paradigma delle colonie estive. AI loro posto nasce il “centro estivo”.
Rigenerazione
Le colonie sono oggetti architettonici che offrono un campo d’indagine privilegiato, grazie al quale si possono affrontare tematiche di mantenimento della memoria storica, trasformazione dei paesaggi naturali e cambiamenti d’uso, anche in ottica internazionale: si tratta infatti di un fenomeno sociale che ha interessato numerosi paesi in tutto il mondo, lasciando dietro di sé un patrimonio frammentato e difficile da interpretare con un unico sguardo.
Affrontare il presente delle tante colonie in abbandono significa superare una lunga serie di impasse – politiche e economiche – alle quali è possibile rispondere con l’immaginazione di nuovi futuri, tramite installazioni artistiche, riscoperte collettive, in alternativa alla speculazione edilizia e all’assenza di memoria.
A parte pochi esempi virtuosi, si assiste ad una generale indifferenza riguardo tali immobili e le loro storie, spesso rese complesse dalla frammentazione proprietaria, dalla dimensione dei fabbricati e dalle trasformazioni del paesaggio circostante.
Dove sono state lasciate cadere in rovina, ci si trova di fronte alle macerie di veri e propri ruderi, spazi abbandonati e anche pericolosi, molto spesso resi inaccessibili per questioni di sicurezza. Altre volte, sono diventate rifugi per senzatetto o attività di malaffare.
(Colonia Firenze a Calambrone, dalla collezione fotosferica Tirrenica360... )
Il pesante degrado influenza la qualità delle spiagge coinvolte e mortifica la qualità di alcuni periodi della storia dell’architettura, tra fascismo e razionalismo, che hanno visto a lavoro anche grandi maestri.
Sono rari i casi di restauro e rifunzionalizzazione delle ex colonie in contenitori non riguardanti l’ospitalità turistica. La Colonia Agip (già Sandro Mussolini) di Cesenatico è diventato un ostello. La colonia “Torre Balilla” a Marina di Massa continua ad essere utilizzata come centro di vacanza. La colonia “Vittorio Emanuele III” di Calambrone è diventato un hotel di lusso, quella di Cattolica è oggi un acquario.
Molti di questi edifici suscitano l’attenzione di investitori privati, che ambiscono a trasformare i relitti del fascismo in hotel di lusso. Questo interesse speculativo, destinato a un’élite a spese della comunità locale, sembra non preoccuparsi della funzione originaria di queste strutture.
Un caso evidente è la recente trasformazione, dopo anni di aste e trattative, dell’ex colonia Gustavo Fara di Chiavari in un hotel esclusivo. Il sito ufficiale evidenzia l’ambizione di ridefinire «la nuova dimensione del lusso in riviera», presentando il complesso come «un edificio storico dell’architettura futurista», che «riflette la cultura futurista ed espressionista del periodo». Scorrendo il sito, non si trova una sola parola sul contesto storico nel quale l’edificio fu inaugurato, nel 1938, né sul periodo in cui ospitò i profughi provenienti dall’Istria, né tantomeno sull’origine del nome – Gustavo Fara, generale attivo nelle guerre di Eritrea e Libia nei primi anni del Novecento. Il recupero dell’ex colonia sembra aver restaurato solamente la dimensione estetica dell’architettura, senza occuparsi di dare informazioni e creare consapevolezza sulle tante storie complesse e stratificate che hanno interessato l’edificio nel tempo.
Questa difficoltà non è una prerogativa unica delle colonie italiane. Il caso di Seebad Prora, colossale struttura turistica promossa dall’organizzazione nazista Kraft durch Freude sull’isola di Rügen, costruita a partire dal 1936, presenta molte analogie con alcune ex colonie del fascismo. Nonostante il salto di scala (Seebad Prora ha uno sviluppo lineare di oltre quattro chilometri) la storia controversa dell’edificio ancora si percepisce in modo altalenante nelle iniziative di recupero e rifunzionalizzazione. Con il rischio di perdere il contatto con la realtà storica.
(il colosso di Prora in Germania)
Gli spazi dove l’esperienza delle colonie si concretizza sono spesso definiti “eterotopie”. Luoghi altri, lontani dalla vita quotidiana, dove si è tentato di realizzare il sogno di una società alternativa attraverso l’educazione della gioventù. L’abbandono delle colonie per l’infanzia ha lasciato dietro di sé una doppia dimensione di vuoto nei territori, soprattutto nelle località turistiche.
Con la chiusura delle colonie è venuta anche a mancare la comunità che abitava, seppur temporaneamente, questi spazi. Oggi, la comunità degli ospiti delle colonie si può ritrovare sui tanti gruppi Facebook che raccolgono ricordi e fotografie dei bambini e delle bambine di un tempo. Qual è la comunità che invece ora può abitare gli spazi fisici delle tante ex colonie?
Questa storia non riguarda solo le generazioni passate. Al contrario, è quanto mai necessario riportare oggi l’attenzione sulle politiche di colonialismo interno del regime, le operazioni di rafforzamento del popolo italiano in chiave militare e razziale e le tante comunità diverse, militari e civili, che hanno trasformato queste strutture in luoghi di memoria.
Discutere, oggi, di colonie abbandonate è un pretesto per confrontare le tante tracce architettoniche e materiali che il Novecento ha lasciato dietro di sé come rovine nel paesaggio, luoghi di memoria e patrimonio fragile.
Le dimensioni estese del patrimonio edilizio ereditato dal Novecento pongono ora problemi di recupero e di rifunzionalizzazione che, se necessario, potrebbero talvolta essere risolti con la demolizione degli edifici minori, per liberare le aree costiere dai segni più marcati dell’antropizzazione che ha caratterizzato gli anni del boom economico.
Nasce quindi l’urgenza di recuperare il patrimonio costiero vacante e abbandonato dentro progetti di adattamento più ampi, anche attraverso demolizioni e interventi di risarcimento del suolo, per restituire spazio pubblico agli abitanti, in continuità con le spiagge e il mare. Una occasione per promuovere progettualità dolci, a basso impatto, aumentandone la porosità, facilitando la ricostruzione dei cordoni dunali e restituendo il più possibile al mare.
Lungo le coste o in vallate alpine, le tante ex colonie sono il segno tangibile delle generazioni che si sono succedute. Lo studio di questi edifici è un modo per comprendere come la società contemporanea sia in grado di porsi nei confronti dell’eredità sociale, culturale, antropologica. Un patrimonio relativamente recente e che tuttavia sembra giungere a noi da una preistoria lontana, già in forma archeologica.
Tour360
Il tour immersivo dedicato alle colonie di Calambrone, per ammirare le bellezze dei luoghi a tutto tondo. Vai al tour…
Approfondimenti
> Quanti simboli, quante memorie, quanti ricordi fioriscono con la vicinanza del mare? Siete anche voi affascinati dai segni che il tempo e lo spazio hanno disseminato lungo il Tirreno? Aiutateci ad arricchire questo capitolo, perchè le storie tornino a parlare.
Podcast Le colonie
Milioni di bambini italiani, nel corso del ‘900, hanno fatto la loro prima «vacanza» in colonia. Ne parliamo con Stefano Pivato e Paola Russo. (12.8.2023, podcast del Pescatore di Perle)
(Colonia R.M. Mussolini, Calambrone – Alinari)
Vacanze di guerra
Il 1 giugno 1940, mentre le truppe hitleriane stanno travolgendo Parigi, sei grandi navi della Marina Militare Italiana lasciano la Libia, dirette verso l’Adriatico settentrionale. A bordo non ci sono soldati, ma 13.000 bambini tra i quattro e i dodici anni. Tutti figli di quei ventimila contadini che il regime ha convinto pochi mesi prima a mettere radici sulla “quarta sponda” d’Italia. I genitori li salutano dalla banchina del porto.
I bambini sono invitati a passare un mese di vacanza di sole e mare nelle colonie estive dell’Adriatico: Cattolica, Igea Marina, Cesenatico. Il ritorno è rimandato mese dopo mese. Per i piccoli coloni comincia una sorta di sequestro organizzato che li strapperà alle loro famiglie per più di sette anni. Migliaia di bambini, partiti con un grembiulino estivo e i sandaletti per una breve vacanza lontano dai genitori, ritorneranno a casa ormai adulti, in un mondo trasformato da anni di conflitto. (la puntata di Raistoria)
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