Durante il boom economico gli oggetti in plastica veicolano una nuova idea di benessere e di modernità, assumendo il ruolo di testimoni esemplari dell’avvento della democrazia di massa. Ma ai primi entusiasmi subentrano le attuali preoccupazioni, specie per gli oceani, sempre più inquinati. La plastica avvelenerà il mondo?
Plastica, da sogno ad incubo?
All’interno della rassegna di letture in compagnia del Tirreno e sulla scia degli approfondimenti dedicati alle spiagge, una pagina dedicata alla storia delle materie plastiche, importanti protagoniste della trasformazione socioeconomica che muta profondamente l’Italia al termine della seconda guerra mondiale.
Durante il boom economico gli oggetti in plastica veicolano una nuova idea di benessere e di modernità, assumendo il ruolo di testimoni esemplari dell’avvento della democrazia di massa. Ma ai primi entusiasmi subentrano le attuali preoccupazioni, specie per gli oceani, sempre più inquinati. La plastica avvelenerà il mondo?
(elettrodomestici CGE, 1954)
Plastica e modernità
Le materie plastiche sono state importanti protagoniste della trasformazione socioeconomica che muta profondamente l’Italia nel dopo guerra. Questi materiali cominciano ad entrare prepotentemente nelle case degli italiani già dai primi anni ‘50, modificando gli ambienti domestici, cambiando i gesti e i suoni della quotidianità, inventando oggetti adatti a soddisfare nuove funzioni.
Un rinnovamento formale che coinvolge tutta la fascia media della società. Uno stile che sostituisce definitivamente l’ottocento provinciale e gli orpelli fascisti, permettendo di configurare, in maniera provvisoria ma completa, una prima ipotesi di Italia moderna.
(Kartell, 1954)
Prodotti economici, leggeri, resistenti. I vantaggi pratici di tali materiali sono numerosi, a cominciare dalla facilità della lavorazione: con apparecchiature semplici si giunge al prodotto finito, perfettamente levigato, già colorato, inalterabile.
Democrazia e Neutralità
In un’epoca di grandi aspettative, gli oggetti in plastica veicolano una nuova idea di benessere e di modernità con cui sperimentare funzionalità, comfort, visioni, frutto del nuovo rapporto tra tecnica produttiva ed estetica contemporanea.
Nuovi prodotti per nuovi bisogni, reali o presunti, veicolati dalla nascente televisione e simbolo della modernità domestica cui la classe media aspira.
(frullatore Bialetti, 1963)
I prodotti in plastica assumono il ruolo di testimoni esemplari dell’avvento della democrazia di massa, basata sui valori di lavabilità, impilabilità, leggerezza.
Un mondo merceologico a basso prezzo e di bassa qualità, ma portatore di virtù molecolari intrinseche, di natura politica e metafisica. I colori saponosi e la materia sorda sembrano garantire una raggiunta neutralità rispetto alle passioni della storia.
Le plastiche riescono a conquistare una propria identità ed un proprio rigore tecnico, superando la convinzione di chi ancora le considera semplici surrogati di altri materiali più costosi o più preziosi.
(Kartell, 1976)
La sperimentazione ha i suoi tentennamenti: accanto ad oggetti in plastica di grande bellezza formale e correttezza tecnica, realizzati da importanti designer o da mani sconosciute, proliferano tazze che si squagliano a contatto con liquidi caldi, che si macchiano irrimediabilmente al primo contatto con il tè, che trattengono l’unto come carte assorbenti.
Ma l’idea del futuro sembra convergere sui polimeri delle plastiche, dentro a una modernità priva di peso specifico, fondata sulle certezze della scienza. Un futuro pacificato e monologico: razionale, funzionale e componibile. Questo sembra essere il destino che attende le società industrializzate.
(Telefunken, 1960)
Pubblicità e immaginario
Forse più ancora che i prodotti, è il modo di comunicarli che fa comprendere un’epoca. All’inizio degli anni ‘60 si comincia a parlare di civiltà delle immagini e, parallelamente, di civiltà del consumo: due facce della stessa medaglia, che nella pubblicità ha il suo veicolo più persuasivo ed efficace.
Una pubblicità spesso caratterizzata da forte innovazione nel linguaggio grafico e visivo, anticipando quello che sarà poi il design della comunicazione. La comunicazione non riguarda solo l’oggetto in sé, ma anche come deve essere usato, a chi è destinato, come aiuta, migliora, trasforma la quotidianità.
(Carosello Girmi, 1968)
Quello che appare nelle pubblicità sviluppate in quell’epoca ci restituisce il sapore della società di quegli anni. Sono immagini apparse non solo su riviste di settore, come Domus, ma anche sui giornali “femminili”, sui rotocalchi, su un’editoria popolare che proprio dal dopoguerra in poi ha una grande diffusione.
La réclame – come, usando un francesismo, allora si chiamava – diventa il passaggio cruciale tra produzione e vendita. Nuovi oggetti e nuovi materiali propongono a nuovi soggetti – i neonati consumatori – mutati stili di vita, lontani da sacrifici e miserie di un passato recente, traghettandoli dalla società contadina a quella del benessere.
Dalla pubblicità “bambina” degli anni ’50 – con spesso al centro la casalinga diventata moderna e indipendente – a quella più adulta e trasgressiva degli anni ’60, specchio dei mutati costumi, fino ad arrivare al decennio successivo, quando la crisi petrolifera del 1973 fa tramontare spensieratezza e sogni.
(calze Omsa, 1956)
Boom e Globalizzazione
La “democrazia plastica”, che si afferma nel secondo dopoguerra, trova esplicitazione massima negli oggetti più comuni dedicati all’abitare domestico. Sono facilmente “comprensibili”, perlopiù replicano prodotti comuni entrati nell’uso collettivo, in altri casi integrano, sommando in sé, funzioni non pienamente realizzabili con altre materie.
In un primo tempo limitate ad imitazione di altri materiali naturali più costosi (osso, tartaruga, avorio,…), le materie plastiche si diffondono presto in tutti i possibili campi: nei trasporti, nelle apparecchiature meccaniche, nel campo elettrotecnico, nelle applicazioni casalinghe, decorative, ornamentali e così via.
(mobili in formica, 1958)
Un esempio eclatante è il Tupperware (nome dell’azienda subito divenuto sinonimo di prodotto) che interpreta, in parte reinventando precedenti in vetro, l’archetipo del contenitore asettico-termico.
Negli anni del boom economico, gli oggetti di plastica costituiscono la rappresentazione della “cultura materiale” del nostro Paese. Esprimono l’era di una mutazione dei comportamenti individuali all’interno del nucleo famigliare e nella società. Testimoniano la diffusione di un benessere economico, epocale per il nostro Paese, e l’origine di un processo d’omologazione di cultura e costume.
Gli oggetti introducono un nuovo sistema di riferimento di linguaggi e valori che azzera ogni tradizione regionale. Un nuovo stile che accomuna e rappresenta un’intera nazione. Un’esperienza che anticipa la condizione della contemporaneità: la globalizzazione. L’omologazione oggi si è estesa a vaste aree geografiche, prospettando di estendersi all’intero pianeta.
Autarchia
Negli anni che vanno dal 1935 al crollo del regime fascista nel 1943, l’Italia si trova a vivere una forte politica autarchica, con cui si cerca di compensare il blocco delle importazioni di materie prime imposto dalla Società delle Nazioni a seguito all’aggressivo intervento in Etiopia. La povertà dell’Italia in fatto di risorse, causa di uno sviluppo industriale ritardato rispetto alla maggioranza delle nazioni europee, risulta in quel preciso momento storico ancor più gravosa e debilitante per l’immagine di un Paese che ambisce ad avere un ruolo internazionale.
Si fa quindi assai urgente la necessità di liberarsi dall’influenza economica straniera, unitamente al bisogno di generare al proprio interno una spinta alla modernità con forti caratteri di autocelebrazione. Secondo l’abile retorica mussoliniana, le sanzioni economiche si trasformano nell’occasione per iniettare un “moto d’orgoglio” a livello nazionale, un appello all’indipendenza economica e produttiva con cui il partito fascista intende coinvolgere e stringere a sé tutta la nazione. Una battaglia da ingaggiare utilizzando le armi tipiche della nostra creatività: una miscela di “fantasia”, senso pratico e instancabile sperimentazione. Questo spirito, al di là della protervia retorica che ha spinto il nostro Paese, e in molti casi anche la nostra produzione, verso insulse scelte e infausti destini, costituisce comunque una delle radici importanti della storia del design italiano che germoglierà nel dopoguerra e che fiorirà splendidamente nel boom degli anni ‘50.
Le sanzioni imposte al Paese, e le successive restrizioni delle importazioni, se da un lato pongono l’industria italiana ai margini del quadro internazionale, dall’altro stimolano scienza, tecnica e progettualità a soddisfare, con i mezzi posseduti, le esigenze pratiche del momento. L’affannosa ricerca di materie prime nazionali, in sostituzione di quelle importate, viene così condotta in ogni settore. La risposta è la plastica: già nel 1935 la produzione è per buona parte nazionale, da sintesi realizzate in Italia o derivata da sottoprodotti altrimenti trascurati.
La marginalità viene trasformata in virtù, con un’attitudine tutta italiana che si contrappone a quanto avviene negli altri paesi, dove la ricerca avviene con ben altri mezzi e senza limitazioni. In quegli anni apre la Compagnia della Viscosa, mentre la Montecatini, coinvolta in primo piano nei programmi di sviluppo dell’autarchia, diventa il maggiore gruppo chimico italiano.
Le materie plastiche prodotte in regime autarchico portano alla creazione di surrogati dai nomi improbabili (Stabilina, Tenacina, Resistane) e dalle limitate prestazioni. Tali ricerche hanno comunque il merito di avviare un processo virtuoso di studi e sfruttamento di un universo materico nuovo che, in alcuni settori raggiunge notevoli traguardi, come in quello tessile, che nella metà degli anni ’30 balza al primo posto della produzione in Europa, e al terzo al mondo, dopo Stati Uniti e Giappone. Dalla Snia Viscosa escono fibre sintetiche quali Rayon, Fiocco di Rayon e Lanital, l’Albene, il Cisalfa, il Rhodia, la Snia-Amba, il Viscol.
Riconversione
Durante la Seconda Guerra Mondiale i materiali sintetici sono usati massicciamente nell’aviazione: dalla gommapiuma impiegata per foderare i serbatoi della benzina, al polimetilmetacrilato per la realizzazione dei tettucci trasparenti degli aerei, al nylon dei paracaduti.
Terminato il conflitto, le industrie produttrici inglesi, americane ma anche tedesche, hanno la necessità di trovare nuovi impieghi civili a questi materiali. Così, alla fine della guerra, cominciano ad arrivare in Italia una moltitudine di polimeri parzialmente o del tutto sconosciuti: pvc, melammina, polietilene polistirene, nylon, terilene, lycra. Ma non ci sono esempi di oggetti realizzati a cui rifarsi. Comprarle e applicarle è un rischio, una continua sfida capire che cosa ci si può fare. Bisogna provare, sperimentare.
(Nylon Du Pont, 1950)
Le plastiche arrivano in un paese in macerie, con alle spalle un ventennio da dimenticare, ma anche, anzi proprio per questo, un paese in grande fermento, con un clima culturale caratterizzato dalla determinazione e dall’urgenza degli intellettuali di confrontarsi, di uscire dal letargo culturale del fascismo, di ricostruire materialmente e moralmente un mondo nuovo, diverso, migliore. In un paese distrutto dalla guerra, dove tutto manca, si incomincia a prender coscienza della necessità che tutto va cambiato.
Plastica e Moplen
Plastico è un aggettivo di origine greca, significa essere plasmabile in una forma qualsiasi che si mantiene. Le plastiche possono infatti essere plasmate o modellate grazie al calore, alla pressione o a una reazione chimica. Una volta lavorate, mantengono la loro nuova forma e dimensione durante l’utilizzo.
(pubblicità anni ’60)
La plastica è una sostanza che può essere prodotta industrialmente, a basso costo e in grandi quantità. Leggerezza, durata, robustezza, economia e facilità d’uso sono le qualità che ne fanno un materiale insostituibile. Una plastica, in particolare, si distingue fra tutte quelle preparate in laboratorio fino a quel momento: il Moplen.
Moplen è il nome commerciale del polimero termoplastico scoperto da Giulio Natta nel 1954, che gli vale il premio Nobel per la chimica nel 1963, l’unico che I’Italia abbia mai ricevuto.
“…La Natura sintetizza molti polimeri stereoregolari, come la cellulosa e la gomma. Si è pensato per lungo tempo che questa capacità fosse un monopolio della Natura. Ma ora il professor Natta ha rotto questo monopolio. Professor Natta. Le conseguenze scientifiche e tecniche della sua scoperta sono immense e non possono ancora essere pienamente stimate…” Con questa motivazione nel 1963 Giulio Natta ha ricevuto il Premio Nobel.
Dal lavoro di Natta scaturiscono oltre 300 brevetti italiani, che contribuiscono in maniera significativa a mantenere in attivo la bilancia nazionale dei pagamenti tecnologici. Un’avventura scientifica che porta la chimica italiana, e la Montecatini che sostiene le ricerche di Natta, ai vertici della chimica mondiale.
Il moplen è una sostanza leggera (galleggia sull’acqua), possiede alto punto di fusione, alta resistenza meccanica, notevole durezza superficiale, è lucente e capace di conservare tinte vivaci. Giulio Natta ne ha intuito subito le potenzialità industriali. Il suo sogno è che le nuove sostanze create in laboratorio, oltre a trovare la soluzione a innumerevoli problemi tecnici, sostituiscano legno, gomma e fibre vegetali, così da determinare l’abbassamento dei prezzi per centinaia di prodotti di larghissimo uso e trasformare in colture alimentari le distese di cotone e di canapa. Una nuova era industriale al servizio dell’uomo.
Usa e getta
“Di plastica”. Un termine generico e una specificazione dispregiativa per quegli oggetti che dalla seconda metà dell’ 800, quando vengono a scarseggiare materiali naturali pregiati quali la tartaruga, l’avorio, il corno, il legno, sempre più rari e costosi, cominciano ad essere realizzati con “altre” sostanze. Così, all’inizio degli anni ’50, in ltalia si diffondono oggetti realizzati in plastica.
Non più imitazione di materiali “nobili” (tartaruga, avorio, madreperla), ma una nuova identità: colorata, leggera, invasiva, povera, infrangibile, dozzinale o raffinata. In un’epoca di grandi aspettative, veicolano la nascente idea di benessere e una cultura della modernità domestica fino ad allora sconosciuta.
L’uso massiccio delle plastiche ha di fatto coinciso-contribuito al passaggio da una società ancora di stampo contadino alla “società del benessere”. Nel bene e nel male esse assecondano la corrente dell’evoluzione dei mutati e nuovi consumi, talvolta anticipandoli. Un processo che tocca il suo massimo negli anni ‘60, di cui le plastiche sono le scintillanti e colorate icone.
Nel bene e nel male, tra l’utile e il futile, le plastiche assecondano l’evoluzione dei nuovi consumi, modificando gli ambienti domestici, cambiando i gesti e i suoni della quotidianità. Con l’uso della plastica e dei relativi processi di fabbricazione, come la tecnologia dello stampaggio, i nuovi prodotti superano ogni riferimento alla tradizione costruttiva precedente, al contrario imperniata su perizia tecnica, capacità manuale, competenza.
I rapporti con la materia stanno radicalmente cambiando: non si tratta più di affrontare materiali tradizionali, come il legno o i metalli con tecnologie meccaniche (taglio, tornitura, fresatura), ma di adottare invece tecnologie plastiche, che arrivano alla formatura attraverso fusione o stampaggio.
Per la prima volta un prodotto in un materiale artificiale ha la possibilità di essere realizzato con relativa semplicità progettuale-costruttiva, in grande numero di esemplari e a prezzi ridotti. Con la plastica, il taylorismo fordista trova una vera e propria praticabilità di massa. Così non era successo in passato con i mille artefatti in legno, vetro, pietra, metallo. A partire dalla rivoluzione industriale infatti, automobili, prodotti elettrici e elettrotecnici erano certo divenuti disponibili, ma in relativamente piccole quantità, perlopiù con un’elevata complessità produttiva – nella maggior parte dei casi con relativo ricorso a meccanizzazione, stampistica e così via.
Non è sempre stato facile rivendicare piena dignità al “mobile in plastica”. Impiego, diffusione e credibilità in molti ambiti non sono così automatici e condivisi. Per lungo periodo prevale la logica mimetico-imitativa con cui evocare il corno, la pietra, il legno, etc…
(volantino Metalmobil, anni ’60)
Ma la suggestione, il calore, la scabrosità e la sonorità dei materiali naturali sono in pochi anni rimpiazzati dalle impensabili forme delle plastiche: colorate, lisce, leggere, silenziose…. ed economiche, dunque accessibili, al contrario di molti prodotti dell’artigianato, riservati ai ceti più abbienti. “L’utopie de tout plastique” titolava significativamente un’esposizione di qualche anno orsono, a sintetizzare la rivoluzione legata all’introduzione delle materie plastiche: tutto può essere prodotto col nuovo materiale, a poco prezzo e in grande quantità, raggiungendo così un numero elevatissimo di consumatori.
L’oggetto non ha più alcun carattere d’esclusività o ragione per la sua conservazione. Per la prima volta si usa e si getta. La pubblicità e i grandi magazzini propongono continue mutazioni del paesaggio domestico, sollecitando a desiderare sempre nuovi prodotti.
(Stand elettrodomestici in fiera, 1955)
Nuovi linguaggi
Nel generale clima di rinnovamento materiale e culturale del periodo postbellico, le manifestazioni espositive – e in particolare la Fiera Campionaria di Milano – costituiscono una testimonianza della volontà di ricostruire, atto di fiducia e di speranza nella possibilità di risollevarsi. Diventano inoltre le occasioni per mostrare al grande pubblico i risultati della nascente disciplina del disegno industriale.
Sono gli anni in cui – a testimoniare un conquistato ruolo della cultura del progetto nella produzione industriale – fra l’altro, si tengono mostre e convegni sull’industrial design. Esce “Stile industria”, la prima rivista interamente dedicata al design; ma anche dal punto di vista della costruzione di un pubblico e un mercato, i magazzini La Rinascente, riaperti nel 1950, si propongono non solo di vendere, ma di influenzare il gusto italiano.
(le creazioni di Marco Zanuso)
La Rinascente istituisce nel 1954 il premio Compasso d’Oro, un riconoscimento all’eccellenza del design in ltalia, ben presto “adottato dalla neonata Associazione per il Disegno Industriale. La “I Mostra Internazionale dell’ Estetica delle Materie Plastiche”, tenutasi alla fiere di Milano nel 1956 e promossa dalle riviste “Stile industria” e “Materie plastiche”, costituisce il primo appuntamento in cui progettisti, imprenditori e pubblico possono confrontare le “espressioni più qualificate del disegno industriale nel settore delle materie plastiche”.
L’idea è quella di dimostrare la vastissima flessibilità e duttilità formale delle plastiche. Inoltre viene eretta la Casa di plastica, abitazione monomaterica completamente prefabbricata, posta sulla riva di un bacino artificiale, dove navigano anche piccoli scafi inaffondabili, nell’intenzione di mostrare le potenzialità di adozione di tali materiali nei prodotti per il tempo libero.
(sedia universale, J.Colombo, 1965)
Per i progettisti del nascente disegno industriale si tratta di rispondere ad una domanda di modernità fino ad allora inevasa, in un mercato produttivo e in un circuito distributivo che deve per buona parte essere reinventato. Si tratta di costruire un linguaggio per l’industria, partendo dal vasto e prezioso bagaglio della cultura artistica e artigianale presente in Italia.
Un linguaggio in grado di incidere sulla realtà del Paese in un campo – quello degli artefatti – più libero e immediato di quello dell’architettura e dell’urbanistica. Un linguaggio che può essere veicolato e riprodotto a buon mercato proprio sfruttando le potenzialità della nascente industria.
In questo quadro, l’impiego dei polimeri – materiali nuovi, economici e versatili- è la lungimirante risposta. Si tratta di prodotti che con le mutate condizioni di peso in rapporto alle loro dimensioni, trasformarono le nostre esperienze sensoriali. Con la gamma dei loro colori introducono nell’anonimo paesaggio domestico una dimensione lucida, facendo percepire la sensazione nuova, visiva e tattile di vivere in ambienti artificiali, attraversati da nuove forme, morbide e flessibili, trasparenti, luminose e leggere.
Nel corso degli anni ‘60 i polimeri diventano i materiali d’elezione nell’assecondare le istanze del vivere “giovane”, informale, nomade. Tra ideali rivoluzionari, seduzioni consumistiche e nuovi miti, il potere comunicativo delle plastiche la fa da padrone: dai morbidi poliuretani, al trasparente acrilico, al lucido Abs.
Una nuova tipologia di prodotti, nata sotto la duplice spinta delle nuove stimolanti possibilità tecnologiche e dell’esigenza ancora inespressa di elementi di arredo più flessibili, informali, che meglio corrispondano ai cambiamenti sostanziali del modo di vivere che si stanno improvvisamente diffondendo, soprattutto fra i giovani, verso la metà degli anni ’60.
Boom e società
Le plastiche assecondano una democratizzazione dei consumi che esplode attorno al 1958, l’anno dell’inizio del boom economico. Con venti anni di ritardo rispetto all’ America, nelle case operaie e piccolo borghesi italiane spariscono le bacinelle di metallo zincato o smaltato, pesanti, ammaccate, rumorose.
Spariscono anche le vecchie madie di legno, che non entrano più negli appartamenti dell’Ina-Casa. Al loro posto le cucine all’americana, componibili, rivestite di laminato plastico, complete degli elettrodomestici e dei Tupperware, dove conservare cibi non più preparati quotidianamente in casa, ma acquistati surgelati, liofilizzati, precotti.
(Ragazzo di campagna, 1984)
Il paesaggio domestico intraprende in quegli anni una trasformazione senza ritorno, cui le plastiche contribuiscono in maniera significativa, tra kitch imitativo, improbabili pezzi frutto della libertà progettuale consentita dalle plastiche, originali di famosi designer, copie prodotte in migliaia di pezzi e mirabili esempi di design anonimo.
Estetica e consumo
Con l’introduzione della plastica, il design inizia a misurarsi con la conquista di un mercato vastissimo. Oggetti che per attrarre devono essere familiari, ma nel contempo devono apparire. Nei prodotti di plastica si afferma la duplice peculiarità dell’apparire e della funzionalità, il binomio paradigmatico del design italiano. L’apparire dell’oggetto alimenta nei prodotti un nuovo valore aggiunto: il loro contenuto comunicativo.
L’oggetto fa mostra di sé, anche a rischio di sconfinare nel kitch, perché proprio nella sua estetica risiede quel plusvalore necessario per la sua affermazione. Nell’immagine c’è quanto promesso dalla pubblicità. Con l’esaltazione dell’apparire si crea il desiderio di possesso: il consumo d’oggetti dalla bellezza vistosa diventa segno d’affermazione sociale.
Anonimato
La stragrande maggioranza degli oggetti in plastica che conosciamo, quotidianamente usiamo, sono perlopiù anonimi. Piatti, bicchieri, posate, contenitori, elettrodomestici, e così via. Il bicchiere bianco usa e getta, il rasoio, il packaging di un prodotto alimentare; e poi in crescendo, una svariata quantità di componentistica contenuta praticamente in tutti i prodotti d’ogni giorno, dal telefono mobile all’autovettura.
Non si notano più di quel che è necessario e in sostanza hanno un “design non vanitoso” – come è stato definito. Sono anonimi nel senso che perlopiù il loro progettista non è conosciuto e anche l’azienda non ha notorietà significativa; anonimi nel senso che in virtù dei loro caratteri sicuri e validi sono destinati a durare nel tempo, ad essere percepiti “nella distrazione”, come una presenza scontata delle cui qualità funzionali ed estetiche di frequente fatichiamo ad accorgerci più di tanto.
(Tupperware party, 1950)
Si affermano soprattutto in virtù delle loro capacità di durare nel tempo, di congruità allo scopo, etc. Si tratta di oggetti che qualcuno certo ha pensato; talvolta paiono risultato di un progetto collettivo maturato nel corso di un tempo lungo, e che alla fine usiamo da sempre, senza riflettere. Parte significativa della nostra vita.
Talvolta mancano di una specifica codificazione tipologica, in altri casi da subito si configurano, dal punto di vista estetico e funzionale, come prodotti in sostanza “definitivi”, non necessitanti di ulteriori interventi e variazioni. Quanti acquistano questi prodotti pensando alla “firma”? Sono necessari, indispensabili, funzionano e punto.
Il design anonimo dei tecnici della produzione afferma le finalità pragmatiche della diffusione dei prodotti nel mercato della gente comune, di quei nuovi ceti urbani che si stanno conquistando un nuovo ruolo sociale, omologati proprio nei consumi, dal nuovo modello culturale. È a questa società che i progettisti destinano i nuovi prodotti, i tanti oggetti che aiutano a vivere e che piacciono.
Di solito gli oggetti anonimi non hanno pretese di bellezza. I criteri estetici sembrano esclusi da ogni tipo di ricerca sulla forma. Seppure la bellezza non venga ricercata, essa appare comunque una conseguenza del tutto naturale di un processo “giusto”, “corretto”, in cui la forma “logica”, in quanto puramente necessaria, produce un’alta qualità estetica”.
Piccoli oggetti anonimi, che in quanto non immediatamente visibili, leggibili e riconoscibili devono possedere un autonomo senso proprio. I nostri oggetti sono ammalati di stile. Sia nell’essere progettati e costruiti, sia nell’essere percepiti e utilizzati, essi sono avviluppati da una coltre estetica eccessiva, che impedisce sovente di riconoscerne l’autentica natura.
(penne BIC, 1950)
Il loro significato è tanto più intenso quanto più è connesso alla ragione strutturale del suo essere per il mondo. Le tracce di questa necessità di essere, da cui procede anche la loro qualità è dunque rintracciabile proprio in quegli oggetti che utilizziamo, o abbiamo utilizzato, quotidianamente senza attribuire loro una particolare carica di significato.
Si possono manipolare in maniera diversa, ma anche trascurare, convivere con essi senza preoccupazione, senza produrre l’affollamento di significato che spesso accompagna gli oggetti di design.
Chi si pone domande sul progettista dell’ombrello, se la sua forma sia quella giusta e definitiva? Lo stesso pare potersi dire, in sede storica e di indagine contemporanea, per alcuni oggetti plastici. Che naturalmente non sono tutti anonimi, anzi hanno contato illustri designer che si sono cimentati nell’applicazione e nello sviluppo al meglio delle potenzialità del materiale, adattandolo a tipologie comuni oppure inedite.
Parlare degli oggetti anonimi vuol dire affrontare il mondo frastornato da designer-star, dall’eccesso di “firma”, cui non sempre corrisponde qualità e innovazione; un design in qualche crisi di identità e orgoglio, di frequente in balia di elaborazioni (talvolta frettolose) mascherate da profonde verità a proposito delle obbligate necessità del mondo globalizzato, delle magnifiche sorti e progressive del mercato e delle presunte esigenze del consumo.
Nel panorama contemporaneo la lezione “anonima” – che è da sempre caratteristica degli artefatti plastici – merita essere ripensata: essere, progettare e produrre senza vanità, inutili esibizionismi, senza per questo escludere emozione passione e altre nuove qualità (necessarie o superflue che siano) delle merci, per porsi con rispetto, cultura e civiltà nei confronti di chi utilizza le cose.
Plastica e design
Negli anni ’60 si accentua una sperimentazione linguistico-formale, in contrapposizione alla decade precedente, dove l’impiego pionieristico dei polimeri è caratterizzato da una forte sperimentazione tecnico-produttiva – necessaria per controllare appieno le prestazioni che i vari tipi di plastiche possono fornire.
Accanto al design anonimo, un design colto interpreta le potenzialità del nuovo materiale sfruttandone le probabilità espressive, sfruttando quanto più possibile le nuove tecnologie di fabbricazione per sperimentare e innovare, per nuove forme, nuove tipologie di prodotto, per introdurre tecnologia e contenuto estetico nell’oggetto, per interpretare, attraverso il semplice oggetto, il mondo, ma anche una nuova visione del mondo. Un magma informe che attraverso straordinarie alchimie si trasformava in matasse, in lastre piane, in oggetti stampati.
Ecologia
Nel 1972 al MoMA di New York, organizzata da Emilio Ambaz, si svolse la celebre mostra “Italy: new domestic landscape”, una consacrazione del design italiano cui partecipano i maggiori personaggi e gruppi, dai radicali Archizoom e Superstudio, a Zanuso, Sottsass, Rosseli, Colombo, Bellini, Aulenti. Nella realizzazione degli ambienti domestici proposti le materie plastiche hanno, ancora una volta, un ruolo di primo piano nell’assecondare le dichiarazioni programmatiche e visionarie di molti progettisti.
Il polipropilene diventa così in pochi anni il materiale della quotidianità nella casa, ma comincia ad essere impiegato in modo massiccio anche in agricoltura, nel settore elettromedicale, nell’industria.
Sono gli anni nei quali la sicurezza ambientale, lo smaltimento dei rifiuti, la compatibilità, non occupava il centro del dibattito. Si approfitta di tutte le semplificazioni, i miglioramenti, i risparmi che le plastiche consentono, senza porsi troppe domande. Gli anni ’70 – rispetto alla spregiudicatezza sperimentale che, seppure in maniera diversa, accomuna i due decenni precedenti – sono caratterizzati da un rallentamento del dibattito culturale attorno ai temi progettuali e da una sorta di atrofizzazione dell’energia creativa.
In questo clima si ha, nel 1973, la prima crisi petrolifera che segna per i materiali plastici un punto di svolta. Anche se c’è una contrazione del loro impiego – conseguente all’impennata del costo del petrolio – le sue conseguenze sono soprattutto culturali, legate ad una riflessione più generale sull’uso delle risorse non rinnovabili, sul risparmio energetico, sull’inquinamento.
L’esistenza di una questione ambientale è una presa di coscienza traumatica ma positiva, che coinvolge pesantemente le materie plastiche: l’epoca del loro “impiego spensierato” è finita. Ma c’è anche un loro superficiale rifiuto tout court, determinato dall’equazione plastica = inquinamento. L’inizio di una sorta di criminalizzazione del materiale.
Rigetto
La plastica ci ha conquistati o no? Se do un’occhiata alla mia automobile la risposta è inequivocabilmente sì. Credo che, oramai, siano solo una minoranza i pezzi di carrozzeria fatti in altro materiale.
Diverso discorso è per l’abitazione. Non che la plastica non ci sia. La troviamo nel carter del condizionatore, negli elettrodomestici nelle lampade, nel telefono, nel citofono, nel computer, nel televisore, nell’asta della doccia, nel cestino portarifiuti e in mille altri oggetti che ogni giorno adoperiamo senza magari farci troppa attenzione.
Tuttavia, sono altri materiali dominanti. Sono il legno, il metallo, le maioliche, i tessuti dei tendaggi e dei divani: insomma quelli tradizionali. E sono sicuro che se chiedessimo – sia pure dopo aver spiegato che le nuove plastiche sono tutt’altro che quelle degli anni ’60 – a un campione di utenti se vorrebbero o meno una casa in cui predomina questo materiale, la risposta sarebbe: no, grazie. Al massimo, se sono sufficientemente radical chic, accetterebbero in casa qualche pezzo d’arte “plastica” o qualche oggetto sintetico di modernariato, possibilmente raro e costoso. Ma sempre a condizione che i singoli pezzi siano separati, isolabili dal resto dell’arredo, che, insomma non facciano sistema.
Eppure, se andiamo indietro agli anni ’60 e ’70, ci accorgiamo che tutta una generazione di architetti dedicò particolare attenzione alle forme dell’abitare che le nuove materie ci avrebbero consentito. Penso agli Archigram, agli Smithson e agli, architetti radical italiani, raggruppati nella mostra “Italy, The New Domestic Landscape”, svoltasi a New York nel 1972. E mi viene in mente il più bravo di tutti, Joe Colombo, che inventò numerosi sistemi, uno più ingegnoso dell’altro, che avrebbero trasformato, grazie alle materie plastiche, le nostre abitazioni, sempre più piccole, in efficienti e piacevoli macchine per abitare. Ma, al pari degli altri, non ebbe grande successo.
(unità arredativa globale, J.Colombo, Moma 1972)
Perché questo rifiuto che non si limita a quello dell’uomo della strada ma investe anche intellettuali raffinati? Credo essenzialmente per una ragione. La plastica, a differenza degli altri materiali, proprio per essere plasmabile, ci comunica l’idea – in parte falsa, ma ciò non importa – di poterci avvinghiare, quasi sopraffare, imbozzolandoci in un mondo artificiale. Un po’ come il cemento, anch’esso un materiale estremamente manipolabile. Non a caso si dice e con tono negativa: cementificare o plastificare.
E questa proprietà ne fa passare in secondo piano un’altra, non meno rilevante e positiva, del materiale: quella di poter realizzare prodotti sensuali, eccitanti e in grado di stimolare i nostri sensi, per esempio il tatto, giocando sulla morbidezza o l’olfatto, grazie all’aggiunta di additivi. È merito del gruppo Memphis, l’aver posto l’accenno su queste qualità, arrivando a realizzare prodotti che ci costringono ad abbandonare molti preconcetti. Ma anche per loro il successo è stato limitato ad una ristretta élite.
(mangiadischi Minerva, 1968)
Da qui la domanda. Vinceranno, nel prossimo futuro, le plastiche riuscendo ad entrare in modo più massiccio anche nelle case tradizionali? lo credo di sì, perché alla fine i benefici in termini di costi e di comfort hanno sempre la meglio sui preconcetti estetici. Ma la lotta con gli altri materiali, vorrei aggiungere, sarà dura e tutt’altro che scontata. E sicuramente ci riserverà piacevoli sorprese.
Riferimenti
Testo estratto dal libro “Mo ..Moplen. Il design della plastica negli anni del boom” di Cecilia Cecchini.
Approfondimenti
> Quanti simboli, quante memorie, quanti ricordi fioriscono con la vicinanza del mare? Siete anche voi affascinati dai segni che il tempo e lo spazio hanno disseminato lungo il Tirreno? Aiutateci ad arricchire questo capitolo, perchè le storie tornino a parlare.
Allarme plastica
L’inquinamento da plastica causa danni alla vita marina attraverso diversi meccanismi: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze chimiche tossiche. Sono 2.150 specie marine che sono venute in contatto con la plastica. Fino al 90% di tutti gli uccelli marini e il 52% di tutte le tartarughe marine ingeriscono plastica.
La plastica è entrata non solo nella catena alimentare marina, ma sta impattando significativamente la produttività degli ecosistemi marini più importanti al mondo, come le barriere coralline e le foreste di mangrovie.
La crescita prevista dell’inquinamento da plastica comporterà in molte aree rischi ecologici significativi che indeboliranno gli attuali sforzi per proteggere e aumentare la biodiversità, se non si interverrà ora per ridurre la produzione e l’uso della plastica a livello globale. In molte aree, tra cui il mar mediterraneo, è già stata superata la soglia massima di inquinamento pericoloso da microplastiche. Segue…
Archeoplastica
Archeoplastica è un progetto per sensibilizzare sul problema dell’inquinamento da plastica e promuovere un uso più consapevole e responsabile di questo materiale. Dal 2018 sono stati selezionati numerosi rifiuti di plastica, datati dai 30 ai 60 anni fa, per realizzare un museo virtuale e diverse mostre nelle scuole e in altri luoghi pubblici. La messa in mostra di reperti di plastica spiaggiata di oltre cinquant’anni fa è il pretesto per raccontare una storia senza fine, quella della plastica, immortale, che si accumula sempre di più nei nostri mari. Solo la conoscenza e la consapevolezza del problema potranno portare al cambiamento di ciascuno di noi nell’uso quotidiano della plastica. segue…
L’età della plastica
La plastica. Negli ultimi 60 anni ha rivoluzionato la nostra vita e ormai avvolge tutto, anche il cibo che mangiamo ogni giorno. Le plastiche sono colorate, morbide, dure, trasparenti, ma per realizzarle servono plastificanti, antiossidanti, inchiostri, solventi. Tanto che una dose di sostanze chimiche migra dal contenitore al cibo. Come possiamo proteggerci? Report, 24.10.2016 segue…
Spiagge
> Cosa sarebbe un mare senza una spiaggia? Al termine di un temporale o all’avvicinarsi di un tramonto, tra un bagno rinfrescante e una passeggiata sul bagnasciuga. Che sia in piena estate o d’inverno. Profumi e cantilene che portiamo dentro una generazione dopo l’altra. Diversi itinerari in bici lungo la futura ciclovia Tirrenica ci permettono di avvicinare la meraviglia dei granelli di sabbia. segue...
Boom e Sorpasso
> Con il film “il Sorpasso” il grande pubblico scopre negli anni ’60 la bellezza della costa tirrenica tra la provincia di Livorno e Grosseto. Le strade invase dalle quattroruote, le spiagge brulicanti, i locali notturni, Castiglioncello e Viareggio templi dell’evasione, del tempo libero e gaudente. Passati 50 anni ed esauritasi la spinta dell’automobile, è ora il tempo di rilanciare la bicicletta anche in Italia? segue...
Extra
Letture
> Creature fantastiche, saline, bonifiche, colonie estive, divinità, boom economico, idrovolanti, ferrovie, .... Storie impigliate sotto costa o affondate in alto mare, sferzate dai venti o cullate dalle onde. Racconti e letture da sfogliare in compagnia del Tirreno. segue...
Percorsi tematici
> Spiagge, fari, pinete, zone umide, promontori, miniere, …. quante storie siete pronti ad ascoltare? Il Tirreno è un teatro che racconta mille incontri. Le memorie storiche si intrecciano con gli scenari naturali, imprimendo a terra tracce da rievocare, un pedale alla volta. Seguendo in bici il mare e i suoi tematismi. segue...
ProgettoZERO
> Un progetto nato dal basso, che aggrega informazioni per partire in bici in compagnia del Tirreno. In attesa di un sito ufficiale che ci lasci liberi di pedalare, aiutateci a rendere questo spazio utile a tutti coloro in cerca di itinerari da Ventimiglia a Roma (...e oltre) segue...
Il vostro contributo
> Innamorat@ anche voi delle pedalate vista mare?
Partecipate con passaparola, proposte, feedback, ... Date una occhiata al progettoZERO e alla squadra operativa. Le amministrazioni non vedono le potenzialità di un percorso ciclabile lungo il Tirreno? Mostriamo loro il contrario. Facciamo conoscere insieme la bellezza delle nostre coste. Cittadini, viandanti, viaggiatori, cicloturisti come voi. Niente di più, niente di meno. segue...